Guillermo Del Toro si è aggiudicato l'Oscar per il miglior film e per la migliore regia con una fiaba che unisce commedia e fantascienza da b-movie al romanticismo (trailer). Una pellicola ben girata e recitata, ottimamente scritta, ma che difficilmente rimarrà nella memoria fra qualche anno.
Per l'ennesima volta, Hollywood ha celebrato se stessa, con un film molto cinefilo, cosa che non guasta, ma soprattutto che non crea problemi dal punto di vista mediatico dopo i clamorosi scandali di quest'anno.
Elisa Espostio (Sally Hawkins) è una ragazza muta che si guadagna da vivere facendo le pulizie in un grande laboratorio governativo in cui un gruppo di scienziati e di militari ha il compito di contrastare l'Unione Sovietica in piena Guerra fredda. Lei guarda peplum in tv, balla il tip tap seduta sul divano con l'amico Giles (Richard Jenkins), copiando Shirley Temple, indossa scarpette rosse lucide come la Dorothy interpretata da Judy Garland ne Il mago di Oz (Fleming 1939), sprizza cinema in ogni scena. La sua stravaganza la rende una sorta di versione riveduta e corretta della Amélie di Pierre Jeunet, mentre il suo legame col "mostro" (nei cui panni è nascosto Doug Jones) è ancora più cinefila, e letteraria prima, connettendosi idealmente ai tanti soggetti che seguono lo stesso schema di relazione tra uomo/donna e essere diverso/ripugnante: da Frankenstein a Nosferatu e Dracula, da King Kong alla Bella e la Bestia, da The elephant man a Edward mani di forbice.
Nel misterioso laboratorio, infatti, gli scienziati stanno conducendo studi su una creatura catturata in un fiume dell'Amazzonia, dove veniva adorata come un dio dagli indigeni, e con cui Elisa inizia un flirt inevitabilmente caratterizzato dal silenzio, in una romantica relazione da cinema delle origini, fatta di piccoli gesti e avvicinamenti progressivi degni di Luci della città (Chaplin 1931).
La storia è ambientata a Baltimora all'inizio degli anni sessanta, come confermano costumi e scenografia - anche quest'ultima premiata con l'Oscar - nonché l'ossessione per il pericolo sovietico e l'idiosincrasia dei benpensanti per la diversità, sia essa intesa a livello razziale, sessuale o fisico, tutti esempi pienamente rappresentati dai personaggi del film. La creatura anfibia è la summa di queste diversità, ma ha la forma più cinefila della pellicola, completamente ripresa dall' "Uomo-branchia" (Gill-Man in originale) de Il mostro della laguna nera (Arnold 1954), uno dei più celebri film di fantascienza degli anni '50, dichiaratamente amato da Del Toro e modello imprescindibile dell'intero genere.
Per l'ennesima volta, Hollywood ha celebrato se stessa, con un film molto cinefilo, cosa che non guasta, ma soprattutto che non crea problemi dal punto di vista mediatico dopo i clamorosi scandali di quest'anno.
Elisa Espostio (Sally Hawkins) è una ragazza muta che si guadagna da vivere facendo le pulizie in un grande laboratorio governativo in cui un gruppo di scienziati e di militari ha il compito di contrastare l'Unione Sovietica in piena Guerra fredda. Lei guarda peplum in tv, balla il tip tap seduta sul divano con l'amico Giles (Richard Jenkins), copiando Shirley Temple, indossa scarpette rosse lucide come la Dorothy interpretata da Judy Garland ne Il mago di Oz (Fleming 1939), sprizza cinema in ogni scena. La sua stravaganza la rende una sorta di versione riveduta e corretta della Amélie di Pierre Jeunet, mentre il suo legame col "mostro" (nei cui panni è nascosto Doug Jones) è ancora più cinefila, e letteraria prima, connettendosi idealmente ai tanti soggetti che seguono lo stesso schema di relazione tra uomo/donna e essere diverso/ripugnante: da Frankenstein a Nosferatu e Dracula, da King Kong alla Bella e la Bestia, da The elephant man a Edward mani di forbice.
Nel misterioso laboratorio, infatti, gli scienziati stanno conducendo studi su una creatura catturata in un fiume dell'Amazzonia, dove veniva adorata come un dio dagli indigeni, e con cui Elisa inizia un flirt inevitabilmente caratterizzato dal silenzio, in una romantica relazione da cinema delle origini, fatta di piccoli gesti e avvicinamenti progressivi degni di Luci della città (Chaplin 1931).
La storia è ambientata a Baltimora all'inizio degli anni sessanta, come confermano costumi e scenografia - anche quest'ultima premiata con l'Oscar - nonché l'ossessione per il pericolo sovietico e l'idiosincrasia dei benpensanti per la diversità, sia essa intesa a livello razziale, sessuale o fisico, tutti esempi pienamente rappresentati dai personaggi del film. La creatura anfibia è la summa di queste diversità, ma ha la forma più cinefila della pellicola, completamente ripresa dall' "Uomo-branchia" (Gill-Man in originale) de Il mostro della laguna nera (Arnold 1954), uno dei più celebri film di fantascienza degli anni '50, dichiaratamente amato da Del Toro e modello imprescindibile dell'intero genere.
Le due "creature" del 1954 e del 2017 |
Richard Strickland (Michael Shannon), rigido e imperturbabile colonnello a capo del laboratorio, e Zelda (Octavia Spencer), collega di Elisa, una corpulenta afroamericana dalla battuta facile, sono i personaggi di contorno più riusciti.
Zelda, con il suo eloquio spesso colorito, è esilarante, grazie a battute sul marito ("parlasse a scorregge sarebbe meglio di Shakespeare"; "non so mentire, tranne a lui, ci vogliono tante bugie in un matrimonio"), sulla cattiveria delle persone basse ("forse non arriva ossigeno lì sotto") o sulle abitudini degli scienziati del laboratorio ("alcune delle menti più brillanti del paese pisciano per terra. Ci sono persino degli schizzi sul soffitto... come fanno?"). Proprio nei bagni, Richard, che Zelda stessa chiama "Mr Piscio con le mani sui fianchi" per il suo virile atteggiamento davanti al wc, illustra alle due donne la propria teoria sugli uomini tutti di un pezzo: un uomo può lavarsi le mani solo prima o dopo aver fatto pipì, altrimenti denuncia un'evidente "debolezza di carattere".
Richard, infatti, è un colonnello che amplifica tutti i luoghi comuni sui militari statunitensi di alto grado, impeccabile e autoritario a lavoro, in difficoltà nella vita quotidiana. Odia l'essere catturato, vorrebbe vivisezionarlo, e lo paragona, senza troppe cerimonie, ai nemici "sovietici" e "gialli". Incarna il sogno americano di quegli anni, così come viene raccontato dalle pubblicità (lo stesso Giles è un disegnatore pubblicitario): ha una perfetta famiglia che prevede una moglie casalinga sempre sorridente e due figli, ovviamente un maschio e una femmina; acquista una Cadillac, preferendo il verde al turchese temendo di poter essere sospettato di omosessualità. Per completare il profilo, legge The Power of Positive Thinking, del massone Norman Vincent Peale, pastore della Chiesa Evangelica Riformata di New York.
Anche la presenza delle immancabili spie russe è condita dalla sceneggiatura grazie a divertenti e lambiccate parole d'ordine, come "la speranza svanisce quando la primavera finisce".
Del Toro gira senza sbavature e con finezze di alto profilo, come nel caso di un'ellissi macabra e divertente, che passa dalle dita recise di una mano ai corn flakes della colazione. Il film non mantiene lo stesso ritmo per tutta la sua durata e, ad una prima parte decisamente meglio riuscita, segue una seconda di livello inferiore e molto più prevedibile.
La fiaba di quest'amore impossibile passa da accenti pulp, come le dita recise già citate o l'immagine della creatura che mangia la testa di un gatto, a scene da commedia, come il ballo tra il "mostro" ed Elisa, che tanto ricorda quello di Frankenstein Junior (Brooks 1975), fino a quelle caratterizzate da un romanticismo da copione, come la metafora delle due gocce che si congiungono formandone una sola, proprio mentre Elisa entra nella vasca, o la sequenza, già diventata cult, dell'abbraccio acquatico tra i due.
A raccordare il tutto, infine, un'ottima colonna sonora (ascolta), meritato Oscar - quarto del film - per Alexander Desplat, che con la sua musica accentua i toni favolistici e visionari della pellicola, mentre la scelta dei brani esistenti riesce a contestualizzare perfettamente gli anni in cui si svolge la vicenda. Si va così da I Know Why di Glenn Miller a Chica Chica Boom Chic di Carmen Miranda; da Babalu di Caterina Valente e Silvio Francesco; dalle note di Summer place di Andy Williams, indimenticabile pezzo del 1962, fino alla Javanaise cantata da Madeleine Peyroux, ma scritta da Serge Gainsborough nel 1963, a conferma che, come dice la frase ad esergo del film, siamo "alla fine del regno di un principe buono", evidente riferimento a John Fitzgerald Kennedy pur se usando parole mutuate dalla letteratura fiabesca.
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