giovedì 17 agosto 2017

L'orgoglio degli Amberson (Welles 1942)

"Era un film molto migliore di Quarto Potere, se solo l'avessero lasciato com'era"....
Con queste parole Orson Welles si riferisce alla sua seconda pellicola, quella che segna l'inizio delle burrascose vicende produttive che lo accompagneranno per tutta la carriera (guarda il film). Nessuno mai, come il genio di Kenosha, infatti, ha rappresentato in maniera più conflittuale il rapporto tra il regista autore e la supervisione delle major a Hollywood.
L'orgoglio degli Amberson, così come lo conosciamo oggi è un capolavoro, ma il suo autore in qualche modo lo "ripudiò", rifiutandone questa versione di 87 minuti, frutto di ripetuti tagli alla durata originaria per un totale di oltre 40 minuti e aggiunte apocrife di raccordo.
Il cast è di quelli che non si dimenticano, a cominciare da Joseph Cotten, nei panni di Eugene Morgan, l'uomo nuovo, colui che fa fortuna fabbricando le prime automobili a fine Ottocento.
Il fascino che la modernità rappresentata da questo personaggio esercita sulla vecchia classe dominante, ormai al tramonto, è evidente nel maggiore George senior, il pater familias degli Amberson, impersonato da un vecchio attore riscoperto da Welles, Richard Bennet, che subito dopo il film scriverà un'affettuosissima lettera al regista poco prima di morire, ma anche in Isabel, una perfetta Dolores Costello, e in sua cognata, Fanny, la magnifica Agnes Morehead, diversamente innamorate di Eugene. Persino il marito di Isabel, Wilbur Minafer, lo ammira, nonostante sia consapevole che il suo matrimonio sia stato possibile solo perché sua moglie si irrigidì con Eugene per l'inezia di una serenata finita in maniera grottesca. L'unico a odiarlo è George Minafer Amberson, il figlio di Isabel e Wilbur, a cui presta il volto un bravissimo Tim Holt, che però passerà la carriera in piatti ruoli da cowboy in western di secondo piano (e pensare che aveva recitato anche in Ombre rosse - Ford 1939).
Il ragazzo, nonostante la giovane età, è il simbolo della vecchia società aristocratica, che trova disdicevole lavorare, "l'unico vantaggio di essere qualcuno dovrebbe essere quello di poter fare il proprio comodo", o meglio ancora "io non credo in un'umanità che lava piatti, vende patate e fabbrica macchine", con un'incapacità di leggere il futuro testimoniata anche dalla sua sfiducia nel cosiddetto progresso che lo porta a definire l'invenzione dell'automobile solo "un inutile ingombro, non sarà mai altro che una curiosità ed era meglio che non fosse inventata", una frase che tanto ricorda quella che il padre dei fratelli Lumière riservò al cinema, per lui condannato ad essere “un’invenzione senza futuro”.
Il contrasto con Eugene è evidente in ogni scena del film e l'abisso che separa i due è evidenziato anche dal differente rapporto con gli affetti: George è gelosissimo della madre e, anche dopo la morte del padre, si frappone con tutti i mezzi ad una relazione tra lei e Eugene, mentre quest'ultimo è sereno e divertito dalla corte sfrenata che il ragazzo fa a sua figlia Lucy.
Welles ha grande simpatia per George e il suo anacronismo, sembra quasi rappresentare il suo alter ego, e la suggestione diventa ancora più forte se si pensa che suo padre, Richard Welles, fu un inventore dilettante e si arricchi con l'industria di furgoni, un profilo biografico del tutto simile a quello di Eugene Morgan.
Il film, soprattutto nella prima parte è davvero magnifico, e lo è indubbiamente la sequenza iniziale, in cui viene delineato il momento storico in cui è ambientata la vicenda attraverso un lungo elogio della lentezza. Siamo nel 1873 e la piccola cittadina, in cui spicca il palazzo degli Amberson, ha un tram a cavalli che si ferma ad aspettare, per semplice cortesia, anche una signora che è ancora in casa... La voce off di Orson Welles racconta, ammiccando ai suoi spettatori che allora lo conoscevano soprattutto per le sue trasmissioni radiofoniche, con battute perfette che, proprio all'inizio insistono sulla diversa percezione del tempo allora, quando "c'era sempre tempo per tutto", e oggi "epoca in cui più aumenta la velocità dei trasporti, meno tempo resta a nostra disposizione". Lo scorrere degli anni è reso anche attraverso l'avvicendarsi della moda: Welles, sempre in questa introduzione, fa indossare a Cotten diversi tipi di pantaloni, giacche e cappelli allo specchio, in una sequenza divertente che egli stesso spiega con un diretto "gli abiti maschili erano buffi e quelli femminili no. Gli abiti femminili erano stupendi".
In questa cornice di sfondo si muovono i personaggi della storia, fedele adattamento dell'omonimo romanzo di Booth Tarkington che, in originale, suona ancora più maestoso come The Magnificent Amberson. Ed è proprio quella magnificenza a risultare ormai anacronistica e che, come sintetizza perfettamente Welles a Peter Bogdanovich nel suo fondamentale libro intervista Io, Orson Welles (1992), parlando del dettaglio scenografico della scala interna del palazzo: "Bè, il cuore di una casa pretenziosa è una scala pretenziosa. È per imitare i palazzi. Questa gente non ha corteggi regali che possano scendere la scala, ma non lo ammetterà mai".
Non a caso, lo si apprende ancora dai racconti di Welles, quella scenografia non piacque ad un gigante dell'architettura moderna come Frank Lloyd Wright che, come zio di Ann Baxter, capitò sul set sorprendendosi di come un tempo si potesse vivere in case del genere.
Eppure quella scala, così adatta al racconto, permette a Welles di girare scene con i suoi prediletti sottinsu (spesso ci sono anche i suoi proverbiali soffitti bassi e incombenti) e con degli altrettanto identitari contrasti luministici. Il direttore della fotografia, però, non è Gregg Toland, che lavorò con Welles in Quarto Potere, ma Stanley Cortez, che anni dopo lavorerà ad un capolavoro assoluto della fotografia cinematografica come La morte corre sul fiume (Laughton 1955); mentre le musica, che alterna melodie solenni e più leggere per i passi più divertenti, è ancora una volta del giovane Bernard Hermmann che in seguito farà binomio con Alfred Hitchcock in alcuni dei suoi più celebri film.
Tra i molti momenti di cinema da manuale penso, oltre al già citato "prologo d'ambientazione", alla bellissima sequenza della festa in casa Amberson, dove George conosce Lucy, con un lungo piano sequenza tagliato dalla produzione; al battibecco tra George e la zia Fanny con le smorfie di quest'ultima che fa il verso al nipote; le silhouette degli attori sulla parete; la mdp posizionata nella bara di Wilbur durante le visite in casa dopo la sua morte, con gli ospiti osservati da un'irreale quanto significativa soggettiva del defunto, su cui viene pronunciata una frase davvero lapidaria, "un brav'uomo, nessuno noterà la sua assenza"; l'eccezionale split screen creato con la ripresa in primissimo piano del riflesso di George che guarda dalla finestra e l'immagine di ciò che vede aldilà del vetro, Eugene che che si allontana in strada.
La seconda parte della pellicola scorre troppo velocemente e il dramma dell'impossibile amore tra Eugene e Isabella, così come quello del tracollo economico degli Amberson, non vengono affrontati con la dovuta accortezza ai dettagli, ma più come una scontata conseguenza delle premesse narrate in precedenza. Quello che resta è l'avverarsi dell'anatema che tutta la comunità aveva augurato sin dall'infanzia a George, un bambino viziato che prima o poi avrebbe dovuto affrontare la vita reale...
Sapere che nei tanti minuti tagliati ci fosse un terzo atto in cui seguire gli sviluppi narrativi di tutti i personaggi, una parte che oggi possiamo solo leggere (v. appendice di Io, Orson Welles), non fa che aumentare il rammarico di non poter vedere il director's cut, annientato da diversi fattori: l'avvicendamento alla direzione della RKO e la paura di non rientrare delle ingenti spese, la partenza di Welles per il Brasile e la difficile situazione internazionale.
All'indomani della fine delle riprese, infatti, il regista si recò in Sudamerica per girare It's all true, altro film sofferto, mentre negli Stati Uniti si svolsero le proiezioni di prova, pratica amata dai produttori e giustamente odiata dai registi. Quella per L'orgoglio degli Amberson, peraltro, si svolse in pieno agosto, a Pomona, piccolo centro della California, dove venne proiettato in seconda serata dopo un musical. Siamo nel marzo del 1942; Welles è partito il mese prima e in quei trenta giorni si è svolto il lavoro di montaggio di Robert Wise che mantiene una fitta corrispondenza con il regista.
Eppure quei 72 questionari negativi su 125 bastarono al produttore George Schaefer a mettere tutto in discussione, e poco importava se tra i 53 positivi ci fossero persone che ammirassero il film in tutti i suoi elementi, celebrandolo come uno dei più belli che avessero mai visto.
Dei 132 minuti se ne tagliarono 17 e la proiezione successiva, stavolta dopo un film d'aviazione con James Cagney, i questionari negativi furono solo 18 su 85, ma quella che tutto sommato sarebbe stata una versione della pellicola che non avrebbe intaccato l'essenza voluta dal suo autore non andava ancora bene per la produzione. Schaefer iniziò a scrivere a Welles che era giunto il tempo di abbandonare l'idea di "film d'arte" e che il suo successivo lavoro per la RKO avrebbe dovuto ridurre i costi e puntare al botteghino.
Welles, bloccato a Rio de Janeiro, scrisse e inviò nuove scene che non furono mai girate; la casa di produzione chiese pareri ad altri registi, ma nessuno osò toccare il film di Orson Welles, un compito che alla fine spettò ai suoi uomini più fidati: il produttore Jack Moss, il montatore Robert Wise e la star Joseph Cotten, tutti convinti che bisognasse apportare altri tagli alla pellicola. Alla fine L'orgoglio degli Amberson uscì nell'agosto del 1942 nella versione che ancora oggi è possibile vedere, e nel montaggio finale quanto girato dal suo regista era inferiore al frutto degli interventi successivi.
I titoli di coda "presentati" ancora dalla voce di Welles sono rimasti com'erano, altro vezzo radiofonico del regista che, dopo aver mostrato i volti dei singoli attori, in conclusione, inquadra un microfono e pronuncia una frase che, pur se orgogliosa in origine, dopo lo scempio fatto risulta involontariamente falsa, eppure bellissima: "io l'ho scritto e l'ho diretto: io sono Orson Welles"!

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