venerdì 14 luglio 2017

L'infanzia di un capo (Corbet 2015)

Michael Haneke lascia sempre qualcosa sul suo pubblico, e su questo non si possono avere dubbi, ma fino ad ora non sapevamo quanto potesse lasciare in chi lavora a stretto contatto con lui.
Brady Corbet, in poco più di dieci anni di carriera come attore, ha recitato anche per Lars von Trier e Olivier Assayas, solo per citare altri due nomi che lo hanno certamente influenzato, ma vedere L'infanzia di un capo (trailer), sua opera prima, finalmente distribuito con un paio d'anni di ritardo e non certo nel momento migliore dell'anno, dimostra quanto il regista austriaco lo abbia cinematograficamente segnato.
E i risultati sono ottimi: il film, presentato al Festival di Venezia 2015, ha vinto il premio Orizzonti per la regia e il premio Luigi de Laurentiis per la migliore opera prima.
La regia, in effetti, ruba davvero l'occhio, tra soggettive irreali (ce n'è una bellissima, sfocata nei contorni e a fuoco sul piccolo protagonista e la sua insegnante in lontananza nel mezzo di una campagna sterminata); surcadrage che si aprono verso l'esterno alla John Ford; campi vuoti alla Ozu (splendido uno che indugia sul corrimano in ferro battuto di una scala); split screen naturali alla Hitchcock (ma con una metà costituita da uno specchio!); attenta disposizione dei personaggi su piani sovrapposti alla Visconti o alla Bergman: in buona sostanza tutto ciò che anche Haneke ha sapientemente "rubato" al cinema del passato. 
A questo si aggiungano le atmosfere cupe, acuite da interni claustrofobici della grande casa di campagna in cui è ambientata la storia, che la scenografia appesantisce con la profusione di tendaggi, conferendole un senso di decadenza palesato da muri scrostati e decorazioni che hanno perso lo splendore di un tempo. E poi l'ottima musica di Scott Walker, con fiati e archi dissonanti a contrassegnare i momenti di maggior tensione, e dei passi degni di Bernard Herrmann nel finale.

Ma veniamo alla vicenda, liberamente ispirata all'omonimo racconto di Sartre (1939) e al romanzo dell'inglese John Fowles, Il mago (1965), è divisa in tre capitoli, dedicati al primo, secondo e terzo scatto d'ira del piccolo protagonista, conclusi da un epilogo prolettico che è conseguenza di quanto raccontato nelle quasi due ore di film. Quest'ultimo dettaglio non può non far pensare a Il nastro bianco (Haneke 2009): come lì veniva narrata la generazione che avrebbe vissuto la Prima guerra mondiale attraverso la storia di una piccola comunità di un paese della Germania del Nord, qui viene narrata quella che porterà alla Seconda tramite l'infanzia di un bambino allevato con la stessa rigidità.
Siamo nel 1919 e Prescott (Tom Sweet) è il figlio di una donna proveniente da una ricca famiglia europea (Berenice Bejo), che si ritrova ad essere moglie e madre senza averlo scelto, e di un diplomatico statunitense (Liam Cunningham), inviato in Francia dal governo del presidente Wilson per partecipare agli accordi che condurranno al Trattato di Versailles, atto finale della Grande Guerra.
La loro ricca casa di campagna è frequentata solamente dall'amico giornalista Charles Maker (Robert Pattinson), dalla servitù e da Ada (Stacy Martin), la giovane insegnante di francese di Prescott. Il bambino ha bisogno di mettersi al centro dell'attenzione: la gelosia per la madre, molto religiosa, lo spinge a lanciare pietre contro i fedeli che escono dalla chiesa; gira nudo per casa durante una delle riunioni diplomatiche del padre; trasforma l'isolamento punitivo nella propria camera in un punto di forza della propria autonomia; durante un ricevimento a casa, invece di recitare una preghiera, come chiestole dalla madre, urla sempre più forte "non credo più nelle preghiere"...
Prescott, nonostante l'età, vive costantemente sotto pressione. Il rapporto con i genitori è sempre conflittuale: le sue ribellioni non vengono mai comprese per quello che sono; la madre non gli concede nessuna deroga alla disciplina; il padre fatica ad esercitare il suo potere cosicché passa alla violenza; anche la bellezza di Ada gli crea problemi, poiché la sua infatuazione infantile, riassunta in un'altra sequenza magistrale in cui Corbet gioca con la luce e le trasparenze, gli genera i primi turbamenti sessuali di fronte ai quali la ragazza reagisce nella maniera peggiore. L'unica persona che gli mostra affetto e gli offre un contatto fisico è Mona (Yolande Moreau), ma naturalmente queste "debolezze" materne vengono considerate negative per l'educazione del ragazzo da parte della madre.
Prescott trova il modo di vendicarsi di tutti e, non a caso, leggendo Esopo sceglie la storia del leone e del topolino, cercando di comunicare che anche i più piccoli possono avere un ruolo importante nella vita dei più grandi. La morale della fiaba, però, non viene colta da chi lo circonda, e da grande non gli resterà altro da fare che diventare leone...

Il cast di questo antiromanzo di formazione sembra perfetto, eppure è cambiato ancor prima di iniziare le riprese: per i genitori del ragazzo, inizialmente, erano stati scelti due mostri sacri come Juliette Binoche e Tim Roth. La prima è stata sostituita da una magnifica Berenice Bejo che in nessun momento della pellicola fa rimpiangere la Binoche, con la sua capacità di passare dal sorriso alla rigidità, e lasciandosi andare anche al rimpianto per una vita che avrebbe voluto diversa e il cui pensiero le bagna gli occhi. Anche Liam Cunningham è adatto al ruolo, ma nel suo caso non serve altro che mostrare rigore e fermezza.
Tom Sweet, il giovanissimo protagonista esordiente, è fantastico: Corbet gli affida un personaggio che racchiude in sé tutte le tensioni del film e il piccolo lo ripaga alla grande, ricordando per alcuni versi il Danny Torrance di Shining (1980) e per altri, soprattutto per il suo rapporto conflittuale con la madre, un altro indimenticabile personaggio di Kubrick, il lord Bullington di Barry Lyndon (1975).
Si è parlato di maniera per il film di Corbet... ma si tratta davvero di una "bella maniera"!

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