La vita può essere incredibilmente dura e la storia raccontata da Kenneth Lonergan dimostra quanto le difficoltà possono cambiarci...
Lee Chandler (Casey Affleck) è un portiere tuttofare dal volto triste e impassibile, che non sembra provare più emozioni: se una ragazza tenta di sedurlo riesce a scoraggiarla, mentre le consuete serate al pub rischiano spesso di chiudersi con una rissa. Affronta tutto in maniera negativa e anche se uno sconosciuto gli chiede se la squadra di basket per cui tifa abbia qualche possibilità di vincere, la sua risposta è "no, neanche una".
Il film alterna, attraverso il buon montaggio di Jennifer Lame, il presente e il passato della vita di Lee, che oggi vive a Boston, ma che ha sempre vissuto a Manchester, nel New Hampshire, dove è costretto a tornare ora, dopo la morte di suo fratello Joe (Kyle Chandler), stroncato da una malattia cardiaca degenerativa, che nel testamento gli impone il ruolo di tutore del figlio Patrick (Lucas Hedges).
I flashback ci raccontano come anni prima le vite dei fratelli Lee e Joe scorrevano felici, e come i due, insieme al piccolo Patrick, amassero andare per mare con il loro peschereccio "Claudia Marie", dedicata alla mamma scomparsa. Entrambi sposati, Lee con Randy (Michelle Williams), dalla quale ha avuto due bambine e un maschio appena nato, mentre Joe ha avuto Patrick da Elise (Gretchen Mol), con cui è ora in costante crisi poiché, da quando ha saputo della sua malattia, la moglie è diventata alcolista.
Il rapporto tra Lee e Patrick nasce sulla base di un'imposizione soprattutto per il primo, che non vorrebbe quella responsabilità e che, con il suo cinismo, non sembra essere lontanamente in grado di prendersi cura del nipote. La sua intenzione è sistemare velocemente le cose e tornare a Boston alla sua vita priva di acuti. Eppure, pian piano, la loro complicità aumenterà sempre di più e Lee si ritroverà ad essere per Patrick una via mediana tra un padre e un fratello maggiore.
Lonergan gira bene, la sua mdp indugia sui personaggi attraverso il frequente uso di carrelli all'indietro e per buona parte del film ci tiene all'oscuro di cosa sia successo a Lee tra i due tempi della vicenda, aumentando la suspence per qualcosa che ogni spettatore attende con certezza, ma da cui verrà comunque spiazzato quando gli verrà mostrato.
La sequenza-chiave sarà proprio quella e grazie ad essa l'intera pellicola acquisterà completamente senso: impotenza, rabbia, tristezza, colpa, sono solo alcuni dei sentimenti che colpiranno Lee in una scena accompagnata da un sottofondo struggente come l'Adagio di Albinoni, che conferisce un alone di ineluttabile dramma che, nonostante il suo inserimento in diverse colonne sonore, solo in un altro caso aveva rivestito un ruolo più determinante, ne Il processo di Orson Welles (1962).
Contribuisce alla resa semplice e priva di fronzoli, quasi alla Loach, la bella fotografia di Jody Lee Lipes che trova nel silenzio dei paesaggi innevati e nella calma del mare un personaggio in sintonia con gli altri... e non mi riferisco solo a Lee, poiché funzionano tutti, e soprattutto Patrick che conferma la bravura di Lucas Hedges, già recentemente apprezzata in The Zero Theorem (Gilliam 2013) e in Grand Budapest Hotel (Anderson 2014), e Randy che è valsa a Michelle Williams la candidatura all'Oscar.
Contribuisce alla resa semplice e priva di fronzoli, quasi alla Loach, la bella fotografia di Jody Lee Lipes che trova nel silenzio dei paesaggi innevati e nella calma del mare un personaggio in sintonia con gli altri... e non mi riferisco solo a Lee, poiché funzionano tutti, e soprattutto Patrick che conferma la bravura di Lucas Hedges, già recentemente apprezzata in The Zero Theorem (Gilliam 2013) e in Grand Budapest Hotel (Anderson 2014), e Randy che è valsa a Michelle Williams la candidatura all'Oscar.
La statuetta alla miglior sceneggiatura originale è strameritata. Lonergan non solo idea un soggetto davvero penetrante ma scrive un copione in grado di colpire, di far piangere e persino di far sorridere, anche in maniera non proprio politicamente corretta. A tal proposito penso, ad esempio, all'ironia nera di Patrick, che per il freddo in auto dice allo zio "potremmo tenerlo qui mio padre, risparmieresti un sacco di soldi", facendo riferimento alla necessità di trasferire il cadavere di Joe in una cella frigorifera, nell'attesa di poterlo seppellire in primavera, quando la terra sarà più dolce.
L'Oscar a Casey Affleck è ancora più meritato. Il suo Lee è magnifico, rende perfettamente il vuoto che il suo personaggio prova, con un volto impassibile, i silenzi, la fissità nello sguardo, l'apparente calma che improvvisamente diventa furia non solo nelle ricercate risse da bar, ma anche contro una finestra, segno di una chiara volontà autolesionista. Lee è continuamente su quel crinale a metà tra atarassia e distruttività, che ne fa una sorta di Travis Bickle (Taxi Driver, Scorsese 1980), anche se, a differenza del meraviglioso personaggio interpretato da De Niro, non è il Vietnam ad averlo ridotto a questa abulia, ma la sua vita. A lui basterebbe rinchiudersi nel suo scantinato di Boston, ma la vita ha deciso di provare a fargli cambiare idea, cosicché anche un'azione semplice come quella di far rimbalzare una pallina in strada può rappresentare il segno che qualcosa stia cambiando...
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