mercoledì 8 febbraio 2017

Arrival (Villeneuve 2016)

Una grande finestra divisa in scomparti corre orizzontale lungo un enorme salone e si affaccia sull'oceano... Con questo splendido surcadrage inizia Arrival di Denis Villeneuve, ottimo film di fantascienza incentrato sul "primo contatto" tra umani e alieni, adattamento curato da Eric Heisserer di Storia della tua vita, racconto di Ted Chiang pubblicato all'interno dell'antologia Storie della tua vita  (2002). 
In quell'appartamento ci vive Louise, la protagonista interpretata da Amy Adams, a cui negli ultimi tempi gli scenografi non sembrano riuscire a destinare abitazioni peggiori (vedi il recentissimo Animali notturni, Ford 2016). Qui, catturato dalla perfezione delle inquadrature a prospettiva centrale, lo spettatore rischia di distrarsi e di perdere il basilare monologo sul tempo e sullo strano funzionamento della memoria recitato dalla voce off di Louise.
Le immagini rarefatte, la densità dei concetti e il modo in cui vengono espressi, accompagnati dalla struggente On the nature of daylight di Max Richter (già usata, tra gli altri, in Shutter Island, Scorsese 2010) non possono non far pensare al cinema di Malick.
Villeneuve dà così vita ad una pellicola di fantascienza che pesca molto non solo dal maestro dell'Illinois, ma anche da Christopher Nolan, senza arrovellarsi però negli eccessi labirintici del regista di Inception, una combinazione di elementi che fa di Arrival un ottimo film, tra i migliori del suo genere degli ultimi anni.
Difficile ridurre la trama a pochi dettagli, ma basterà dire che Louise è un'insegnante di linguistica alla quale, dopo l'arrivo di dodici velivoli extraterrestri, viene chiesto di collaborare con il governo e con l'esercito degli Stati Uniti per riuscire a trovare un modo di comunicare con gli alieni per comprendere quali siano le loro intenzioni. L'esperienza cambierà la vita della protagonista, non solo per la straordinarietà del contatto, ma avrà ampia influenza anche sulla sua vita privata... 
 
La scoperta in soggettiva della notizia dell'arrivo degli UFO è davvero ben girata: Louise viene interrotta all'inizio di una lezione da una studentessa che le chiede di accendere il televisore dell'aula. La mdp, dopo aver inquadrato in rigorosa prospettiva centrale sia la grande sala che l'enorme schermo che si nasconde dietro l'enorme lavagna a parete, indugia su Louise e sulle sue espressioni facciali... della notizia non ci restano che le voci.
È il colonnello Weber (Forrest Whitaker) a coinvolgerla nel progetto chiedendole di aiutarli a comunicare con gli extraterrestri, un compito che Louise dovrà svolgere al fianco del fisico teorico Ian (Jeremy Renner) - la matematica, declinata in musica, era il linguaggio universale sperimentato in Incontri ravvicinati del terzo tipo (Spielberg 1977) -, e in contrasto con i militari e l'agente della CIA David Halpern (Michael Stuhlbarg). Questi ultimi, infatti, sono ossessionati dal terrore dell'apertura nei confronti dell'altro, in una metafora politica che da sempre caratterizza gran parte del cinema di fantascienza e che in questo caso oppone la cultura, umanistica e scientifica, all'ideologia militare; l'integrazione alla difesa di fronte a ciò che è ignoto e per questo fa paura ai più.
Louise e Ian tentano di parlare con gli eptapodi, enormi esseri con sette lunghi tentacoli (ne è passato di tempo dalla fantascienza anni cinquanta di Roger Corman & co., ma la soluzione iconografica è simile), che abitano i "gusci", le enormi navicelle semiovoidali atterrate sulla Terra. Questa specie di testuggini, alte oltre 450 metri, nella loro posizione verticale e isolata all'interno del panorama circostante sono dirette discendenti del monolite di 2001. Odissea nello spazio (Kubrick 1969), a cui rimanda anche la bella inquadratura dal basso di quell'enorme struttura che da quel punto di vista occupa l'intero schermo.
Il lavoro dei due scienziati presuppone che gli alieni vengano in pace e cerca di dimostrarlo, ma il preconcetto ossessivo sulla sicurezza da parte dei militari di tutto il mondo creerà una crisi nell'evoluzione di questo rapporto e basterà una frase poco chiara ed equivocabile, per mandare all'aria i molti passi avanti fatti da Louise e Ian.
Gli undici paesi del mondo che ospitano gli altri gusci alla prima difficoltà interromperanno i collegamenti scegliendo di usare le armi, in un'altra evidente metafora che pone agli antipodi comunicazione e guerra. Una differenza rispetto al passato: oggi l'altra grande superpotenza che fa binomio con gli Stati Uniti non è più la Russia, ma la Cina, rappresentata dal generale Shang (Haruhiko Yamanouchi).
Viene sviluppata con grande attenzione la fase del primo contatto e dei primi "dialoghi" tra gli scienziati e i due esseri di un altro mondo. L'interno del guscio, che a metà del suo lungo cunicolo diventa privo di gravità, sembra organico, un dettaglio che piacerà certamente a David Cronenberg, maestro dell'organicità al cinema, e la grande "aula" in cui Louise, Ian e un ristretto manipolo di uomini interagiscono con quelli a cui lo stesso Ian dà il nome di Tom e Jerry (in originale Abbot & Costello, da noi Gianni e Pinotto) è separata da loro da una grande parete trasparente. Gli umani registrano tutto, soprattutto quando gli alieni iniziano a "parlare" attraverso forme circolari "scritte" attraverso un fumo nero che esce dai loro tentacoli (a metà tra le ragnatele dell'Uomo Ragno e il liquido nero secreto da molti cefalopodi): tecnicamente sarà questo il lavoro di traduzione che Ian e Louise dovranno compiere avvalendosi dei campi dei loro diversi saperi.
E all'insofferenza dei militari per la lentezza di questo procedimento, Louise risponderà con la famosa leggenda metropolitana - e quindi falsa - sull'origine della parola kangaroo, che il capitano Cook nel 1770 avrebbe sentito pronunciare dagli aborigeni dopo aver indicato un marsupiale, ma che invece nella loro lingua avrebbe avuto il semplice significato di "non ho capito".
Anche in questo caso il potere della comunicazione è al centro del film: conoscere può significare anche dissimulare o non far conoscere a chi potrebbe non capire; d'altronde le strutture di una lingua condizionano il pensiero, secondo la teoria di Sapir-Whorf e così, il principale ostacolo per l'umanità in questa situazione è proprio il fraintendimento del senso di una parola, dettato da un preconcetto, mentre la Babele linguistica dei dodici paesi coinvolti sparsi per il pianeta è parallela alla separazione politica, perfettamente riassunta da Halpern in una delle frasi più eloquenti del film: "non siamo un mondo con un unico leader, è impossibile trattare con uno solo di noi".
A tutto questo fanno da contorno giochi linguistici come i palindromi - la figlia di Louise si chiama Hannah -, parole prive di un inizio e di una fine, a loro modo circolari come la scrittura aliena e come il tempo, in una continua mescolanza di presente, passato e futuro.
Quanto all'immagine più poetica della pellicola, quella dell'uccellino in gabbia che Louise e Ian portano con sé al cospetto degli extraterrestri, chissà se possa essere interpretata come simbolo dell'impossibilità di comunicazione... 

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