venerdì 25 marzo 2016

Room (Abrahamson 2015)

La pellicola di Lenny Abrahamson è l'adattamento del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue (2010), a cui è stata affidata anche la sceneggiatura, a sua volta ispirato ad un assurdo fatto di cronaca nera, avvenuto nella cittadina austriaca di Amstetten e noto come il Caso Fritzl.
La vicenda dell'ingegnere Joseph Fritzl, che ha tenuto chiusa la figlia Elisabeth per 24 anni nella cantina di casa, abusando di lei e facendole partorire ben sette figli, fino al 2008, è stata semplificata notevolmente nel libro e di conseguenza nel film, ponendo l'accento sul rapporto madre-figlio piuttosto che sul rapimento e sulle violenze subite dalla donna, che invece avrebbero dirottato la pellicola sul genere horror.

L'azione è stata spostata nella provincia statunitense; Elisabeth è diventata Joy Newsome (Brie Larson); il carceriere non più il padre, ma uno sconosciuto che l'ha rapita con l'inganno; il figlio ridotto ad uno solo, Jack (Jacob Tremblay), ispirato a Felix, l'ultimo dei sette avuti da Elisabeth nella realtà, e vissuto fino ai sei anni nel bunker, ma con elementi desunti dalle vicende degli altri.
Jack ha cinque anni e ogni mattina dà il buongiorno agli oggetti, compreso l'armadio in cui deve 'ritirarsi' quando Old Nick (così chiamano il loro carceriere) va a trovare Joy, e a tutti dà un'identità individuale, poiché di fatto sono i suoi amici, che significativamente chiama senza l'articolo ('stanza', 'lampada', 'armadio', ecc.). La sua realtà è in quelle quattro mura illuminate da un piccolo lucernario e dalla televisione, che racconta mondi fantastici in cui esistono montagne, mare e tutto quello di cui Joy gli ha insegnato a dubitare, poiché fuori da 'stanza' non c'è altro che il cosmo.
Nell'inevitabile confusione creatasi nella sua mente, Jack sovrappone finzione e realtà chiedendosi "i sogni dove sono? Andiamo nella tv per sognare?"
Allo stesso tempo, però, sua madre gli racconta storie di prigionieri, come il conte di Montecristo, e gli lascia leggere un libro di fantasia che possa ampliare gli orizzonti a chi non ha nemmeno mai visto un paesaggio, Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll.
È proprio con l'arrivo del quinto compleanno che Joy decide sia giunto il momento di spiegare al figlio come stiano le cose, che tra 'stanza' e 'cosmo' c'è il mondo e perché si trovano a vivere lì, con l'obiettivo di riuscire ad evadere in qualche modo. La splendida risposta di Jack di fronte a questa improvvisa richiesta di responsabilità da parte della madre sarà "voglio tornare ad avere quattro anni".
Una volta fuori, Jack capirà che "dietro le porte ci sono altri dentro e altri fuori", conoscerà altri esseri umani, tra cui i nonni, farà amicizia con i suoi coetanei e conoscerà tanti elementi della realtà che prima riteneva frutto della fantasia. Per Joy, paradossalmente, sarà più difficile, dovendo sopportare i riflettori della celebrità involontaria, la separazione dei genitori e, su tutti, la vita che gli altri hanno vissuto mentre lei era rinchiusa nel capanno, ma d'altronde, come dice saggiamente suo figlio, in una delle frasi migliori della sceneggiatura, "le cose succedono succedendo"...

Le interpretazioni sono davvero ottime: il piccolo Jacob Tremblay sembra un attore navigato e Brie Larson ha vinto un Oscar meritatissimo; tra gli altri attori, che fanno poco più  che da contorno, si segnala la brava Joan Allen, nei panni di Nancy, la madre di Joy; William H. Macy, in quelli del padre, Robert; Tom McCamus, come Leo, il nuovo compagno della madre.
Il film ha la sua forza nella storia che racconta e nell'approfondimento psicologico straordinario fatto su tutti i personaggi, non solo i protagonisti, ma anche quelli minori, e si pensi ad esempio al lavoro della poliziotta che risale all'identificazione del luogo in cui Joy è ancora rinchiusa attraverso una serie di domande poste a Jack con il massimo della tenacia, ma allo stesso tempo con grande tenerezza e rispetto nei confronti del bambino.
La regia non sfigura e anzi, pur essendo costretta anch'essa in quei nove metri quadri della stanza per la prima parte del film, indubbiamente la migliore, fa cose egregie. Sono bellissime le sequenze claustrofobiche, dai contorni sfocati dei titoli di testa alle soggettive del bambino tra le feritoie all'interno dell'armadio, dalla quotidianità della follia di quella vita da reclusi alla eccezionale preparazione della fuga, in cui Joy allena il piccolo Jack con la durezza della disperazione.
Il momento in cui Jack, una volta fuori, fa srotolare il tappeto in cui si finge morto e vede il cielo, però, è forse quello più alto dell'intera pellicola: gli occhi sgranati del bambino, l'incredulità mista a felicità per quella libertà che ancora non sa cosa sia, danno un tocco di lirismo assoluto, che negli ultimi anni, per come fa trattenere il fiato, potrebbe essere paragonata solo all'incredibile "apertura dello schermo" in Mommy (Dolan 2014).
Se non per questa personale suggestione, è difficile trovare rimandi cinefili in un film come questo, cosicché quando Joy canta al figlio The Big Rock Candy Mountain come dolcissima ninna nanna (ascolta), pensare all'indimenticabile versione della stessa canzone in Fratello, dove sei? (Coen 1997 - ascolta) è solo un modo per sdrammatizzare e alleggerire la terribile storia che si sta vedendo...

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