sabato 5 marzo 2016

Il club (Larraín 2015)

"Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre".
Con questo brano della Genesi (1, 4), così manicheo, si apre il bellissimo e durissimo film di Pablo Larraín, che colpisce sì la pedofilia all'interno del mondo della Chiesa, ma non si limita a questo e affronta anche le più comuni pulsioni sessuali dei religiosi e le altre possibili tentazioni; l'idea di penitenza per coloro che hanno commesso gravi peccati; ma soprattutto la lotta di classe all'interno di una realtà che non può essere la medesima quando opera in contesti sociali profondamente differenti...
Cile: La Boca, piccolo centro sul mare a circa 500 km a sud dalla capitale Santiago. In una casa vivono una donna e quattro uomini di mezza età, che sembrano condurre una vita tranquilla, in cui fa eccezione la passione per Rayo, un levriero che addestrano e fanno partecipare a gare organizzate nella zona, che gli frutta importanti somme di denaro.
Con questi pochi elementi inizia una storia che si complica col passare del tempo e in maniera esponenziale. Solo con l'arrivo nella casa di padre Mattia Lazcano (José Soza), lo spettatore comprende la reale natura di quella piccola comunità... il club che dà il titolo al film. Si tratta di un luogo di ritiro per religiosi espulsi dalle parrocchie di appartenenza per aver commesso reati reiterati. L'apparente tranquillità viene sconvolta dal suicidio di padre Mattia che non resiste alle accuse di Sandokan (Roberto Farías), un uomo che si mette a urlare sotto la casa di penitenza tutte le pratiche sessuali a cui è stato costretto da lui e da altri sacerdoti quando era un semplice chierichetto.
Tra le conseguenze di questo tragico evento, l'arrivo di padre Garcia (Marcelo Alonso), un gesuita inviato dalla Chiesa a risolvere la questione e a interrogare gli abitanti della casa, come un vero e proprio inquisitore dei nostri tempi. 
Decisamente straordinari i personaggi e la sceneggiatura, scritta da regista insieme a Guillermo Calderón e Daniel Villalobos.
Padre Vidal (Alfredo Castro) è omosessuale, in passato sembra anche aver ceduto ad episodi di pedofilia. Per difendersi attacca padre Garcia sia sulla sua capacità di reprimere le pulsioni - "io sono il re della repressione" -, sia sul levriero a cui è particolarmente affezionato, l'unica razza di cane citata nella Bibbia. Da qui a farne una fonte di guadagno attraverso le scommesse, però, ce ne passa.
Padre Silva (Jaime Vadell) è stato cappellano militare per 35 anni, ed esserlo stato in Cile negli anni del regime di Pinochet significa aver fatto il confessore di decine di assassini e torturatori. Il peso di quelle confessioni che porta con sé è enorme.
Padre Ramirez (Alejandro Sieveking) non è più autosufficiente e ha dei ritardi mentali, ma ricorda alla perfezione tutte le parole dette il giorno del suicidio di padre Mattia da quell'uomo che lui definisce "l'angelo nero".
Padre Ortega (Alejandro Goic), infine, ama l'alcol, con cui cerca di cancellare i suoi anni di sacerdozio in ambiti sociali disagiati, dove traeva vantaggi economici dal mercato dei neonati.
Anche suor Monica (Antonia Zegers), infine, che in qualche modo dovrebbe essere la sorvegliante e la perpetua dei quattro sacerdoti, ha un passato non proprio senza macchia, sospesa a causa di maltrattamenti su una bambina adottata in Africa.

Nella nuova Chiesa, rappresentata da padre Garcia, non si possono riconoscere i quattro preti appartenenti alla vecchia generazione e tutti con qualcosa da farsi perdonare. Se, però, padre Vidal si contrappone a Garcia, accusandolo di sentirsi migliore solo perché ha fatto l'amore con delle donne, è padre Ortega a spingere sulla lotta di classe e, infatti, non solo lo accoglie commentando "basta guardare la sua faccia da ricco colpevole", ma durante uno dei loro 'dialoghi' lo apostrofa come "un burocrate del Vaticano, che viaggia in prima classe". Ed è quantomai significativo che in una delle scene madri del film, girata in un unico piano sequenza e ben spiegata dallo stesso regista (vedi), mentre sono tutti seduti a tavola per cena all'interno della casa, lo scontro avvenga proprio tra Garcia che urla "in questo momento, per tutti voi, la Chiesa sono io" e Ortega che risponde "no, io sono la Chiesa".
Garcia, in fondo, è lì per risolvere un problema, e comprenderà come le tenebre e la luce non sono sempre facilmente separabili, così come difendere un'istituzione a prescindere dal suo male può significare accettare compromessi terribili, per cui penitenze e lavande dei piedi non possono bastare a pulire la coscienza...

La prova degli interpreti è eccezionale: bravissimi Alonso, Goic e Vadell, ma sono ancora una volta Castro e la Zegers, i due attori feticcio di Larraín, a rubare l'occhio più di tutti. Una particolare menzione va proprio alla moglie del regista, che interpreta una suora amorevole e servizievole, ma all'occorrenza capace di azioni turpi da cui trae una soddisfazione che è possibile leggere in una sorta di scintillio dei suoi occhi e in un sorriso beffardo appena accennato. 
Con questa ambiguità dei comportamenti e dell'intera storia si accoppia perfettamente la grana pallida e scolorita della pellicola, che immortala il desolante paesaggio marino di La Boca.
Larraín racconta una storia devastante, ma questo non gli preclude l'abilità registica, che dimostra in diversi momenti: dalla splendida inquadratura surcadrage in cui la mdp riprende suor Monica che assiste padre Ramirez, creando una sorta di trittico con le pareti laterali che fiancheggiano la porta stessa, agli stretti fish eye sui volti degli interrogati e in particolar modo su quello di padre Vidal, fino ai dettagli della messa in scena con le preghiere recitate attorno ad un tavolino su cui campeggiano significativamente un cero, una statuetta devozionale e quella di un cane.
Le tre case horror
Un paio di suggestioni, infine, dal cinema del passato: il personaggio di Sandokan, fondamentale all'interno della vicenda, quello che di fatto rompe lo squilibrato equilibrio iniziale, e che, grazie ad un linguaggio crudo e realistico, lontano da qualsiasi convenzione sociale, non lascia davvero nulla all'immaginazione, è 'l'angelo sterminatore' che Buñuel non mostrava nel suo omonimo film (1962) ed è magnifica la sua apparizione sul tetto di una casa mentre osserva padre Vidal da una postazione privilegiata, al pari dell'angelo de Il cielo sopra Berlino (Wenders 1987); la casa di penitenza, la casa gialla che tutto il paese conosce ma prova ad ignorare, alle nostre latitudini fa pensare in qualche modo al mistero de La casa dalle finestre che ridono (Avati 1976), ma vederla inquadrare dal basso, come fa Larraín, la trasforma in un inevitabile riferimento alla 'casa' più angosciante della storia del cinema, quella di Norman Bates in Psycho (Hitchcock 1960), non a caso due horror...

Il Gran premio della giuria consegnato a Larraín al festival di Berlino è strameritato, ma lascia di stucco pensare che il film non sia arrivato agli Oscar tra i migliori stranieri, proprio nell'anno in cui l'Academy ha premiato come migliore in assoluto una pellicola mediocre come Il caso Spotlight (McCarthy 2015).
Non ci si faccia ingannare dalle tematiche solo apparentemente simili, i due film sono lontani anni luce e quello del regista cileno è davvero imperdibile!

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