venerdì 19 dicembre 2014

Magic in the moonlight (Allen 2014)

Woody Allen recupera alcuni dei suoi temi più cari, sconfinando in quelli che ormai sono per i più degli abusati cliché... eppure resta qualcosa della leggerezza del suo cinema in questo Magic in the Moonlight, che unisce commedia, romanticismo, sotterfugi e invidie professionali, conditi da occultismo, psicanalisi e filosofia.

Leggi la trama:
Berlino 1928. Stanley (Colin Firth), affermato illusionista, viene raggiunto dietro le quinte dal suo vecchio amico Howard Burkan (Simon McBurney), che gli chiede di seguirlo in Costa Azzurra per 'smascherare' la sedicente sensitiva Sophie Baker (Emma Stone) che, con sua madre come manager (Marcia Gay Harden), sta affascinando un'intera famiglia di suoi ricchi amici, i Cattledge: la signora Grace (Jackie Weaver), che pende totalmente dalle sue labbra, felice di riuscire a contattare, attraverso lo spiritismo, suo marito recentemente scomparso, e il figlio Brice (Hamish Linklater), che se n'è innamorato ed è pronto a sposarla. Stanley accetterà la sfida, ma pian piano le sue certezze ciniche e razionali scemeranno sia di fronte alle continue intuizioni della fanciulla medium sia per la sua bellezza, alla quale non riuscirà a rimanere indifferente pur camuffando il suo invaghimento con un malcelato disprezzo. Galeotto sarà soprattutto un pomeriggio in Provenza durante il quale, sorpresi da un temporale, i due si ripareranno all'interno di un osservatorio...
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Woody Allen, come già anticipato nella premessa, non ha il vigore né il ritmo dei tempi d'oro, ma che ci sia la sua penna dietro al soggetto e ai personaggi di questo film è indubitabile: Sophie è una versione riveduta e corretta della Alice interpretata da Mia Farrow (1990); la villa dei Cattledge in Costa Azzurra è molto simile a tanti contesti alleniani e, soprattutto, ai ricchi protagonisti di Match Point (Brice veste persino un gilet da tennista come gli attori del film del 2005). Stanley, infine, è evidentemente l'alter ego del regista, un uomo cinico e disincantato, ma che, nonostante viva un rapporto stabile con la compagna Olivia, non può evitare di innamorarsi di Sophie, molto più giovane, con molte meno cose in comune, ma la cui presenza e il cui sguardo rischiano di mettere sotto scacco la sua razionalità.  
Gli altri personaggi fanno da contorno, ma merita una menzione quello di Brice, rampollo poco attraente, ricco e viziato dei Cattledge, che passa il suo tempo affannandosi a conquistare Sophie con costosi regali e al suono di improbabili e stonate serenate con l'ukulele, che lo fanno sembrare il cantastorie del Robin Hood disneyano o, ancor meglio, il menestrello interpretato da Eric Idle dei Monty Python e il sacro Graal (1975).
Pur se la sceneggiatura non è delle migliori, alcune battute hanno tutta la tagliente ironia di Allen: 'Hai tutto il fascino di un'epidemia di tifo', dice Howard al suo amico freddo e razionale; e così lo stesso Stanley inanella una serie di frasi in cui, incapace di rivolgere complimenti galanti nei confronti di Sophie, si ritrova involontariamente ad offederla: 'hai lineamenti gradevoli, a patto che la luce sia giusta'; 'avrai spostato montagne per ottenere questo effetto'; 'stai provando romantiche pulsioni per me'. Le linee di sceneggiatura più argute e divertenti, però, sono riservate alla splendida zia Vanessa (Eileen Atkins), forse il personaggio più azzeccato dell'intera commedia. È lei che prende continuamente in giro il nipote Stanley per le sue rigidità e la prima a comprendere che Sophie sta facendo breccia nel suo cuore, nonostante l'imperterrita ostinazione nel negarlo: 'di tutti i miei nipotini tu sei l'unico, Stanley, a non essere di una noia inarrivabile. Se solo avessi un carattere più mite potresti addirittura avere degli amici'; 'certe cose non le puoi capire, Stanley, entreresti a far parte della razza umana'. 
Come molti film alleniani, infine, va sottolineato che la storia nasconde diversi omaggi al cinema e ai suoi più grandi personaggi. Lo spettacolo di illusionismo di Wei Ling, il mago cinese in cui si trasforma Stanley, non può non far pensare i cinefili ad Orson Welles, tanto più che il numero in questione è quello della donna segata in due, performance in cui il regista di Quarto Potere si esibiva con accanto un'assistente d'eccezione come Marlene Dietrich. E se questo non bastasse, la diva tedesca viene più che citata nella scena seguente, ambientata in un locale dove vediamo cantare una sua canzone ad un'attrice abbigliata proprio come Marlene e che peraltro risponde al nome di Ute Lemper, un cameo tutto da ammirare.
Su tutta la storia, in un altro leitmotiv alleniano, aleggia la psicanalisi che, però stavolta sembra preferire Jung all'amato Freud, per come si occhieggia all'inconscio collettivo attraverso l'ironica sterzata verso l'occulto. 
La riflessione filosofica è, invece, incentrata sulla necessità di accettare alcune menzogne per riuscire a vivere meglio, partendo dal presupposto che la felicità non sia la condizione naturale dell'uomo. Proprio a Stanley, inoltre, viene riservato un monologo che per un momento sembra costituire una rivoluzione copernicana nel pensiero del regista statunitense, con l'accettazione dell'esistenza di un Dio superiore, corroborata persino da una preghiera. Lo sviluppo della vicenda rimetterà tutto a posto, consegnandoci un Woody Allen che sembra accettare l'idea di perdere la testa di fronte all'amore ma non certo disposto a farlo con la religione, d'altronde, come dice zia Vanessa, "il mondo può anche essere del tutto privo di scopo, ma non del tutto privo di magia"...     

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