Con questa romantica frase si apre e si chiude una storia d'amore davvero inusuale che fa da cornice al film di Robert Bresson, il cui titolo italiano (in originale Pickpocket) ne precisa in maniera puntuale la forma letteraria. Si tratta infatti di un diario, come dimostra la mano di Michel (Martin LaSalle) che scrive la frase citata, ma anche e soprattutto la sua voce fuori campo che narra l'intera storia, vagamente ispirata al capolavoro di Dostoevskij, Delitto e castigo.
Michel è un giovane uomo spinto dalla vita a diventare un borseggiatore, ma i suoi primi tentativi all'ippodromo sono così goffi da valergli l'arresto da parte della gendarmerie che, però, dopo un veloce interrogatorio e priva di ulteriori prove, lo lascia andare. Michel, così, inizierà a perfezionare la propria attività, tentando di imparare il "mestiere" in un campo molto battuto come il metrò parigino. Ruba con gli occhi, è il caso di dirlo, anche dagli altri ladri, che si rivelano dei fondamentali insegnanti di tecnica e sangue freddo. Il malinconico atteggiamento di Michel diventa più comprensibile per lo spettatore quando lo vediamo andare a trovare la mamma malata e la sua badante, Jeanne, alle quali porta del denaro. Le condizioni della madre però peggioreranno e di fronte all'inevitabile trapasso Michel commenterà amaro e cinico con un eloquente "ho creduto in Dio, Jeanne, per tre minuti".
Davvero singolare il rapporto con il commissario di polizia (Jean Pélégri) che continuerà a seguire le tracce di Michel e ad interrogarlo più volte, in quelle che diventano quasi delle dissertazioni filosofiche, durante le quali ottiene dal giovane particolari affermazioni che lo portano a considerare i ladri come lui degli "uomini superiori" ai quali in qualche modo, a suo avviso, dovrebbe essere lasciata la libertà di delinquere.
Nonostante queste dichiarazioni, però, il protagonista non si allontanerà dai piccoli borseggi, dimostrando di non avere la forza per derubare chi esce dalle banche con valigette piene di denaro e, quindi, continuerà a perfezionare la sua tecnica, entrando in società prima con uno e poi con due "colleghi", con i quali per dividersi il bottino gioca a carte in modo da poter mostrare i soldi in pubblico senza destare troppi sospetti. Le cose, come non manca di sottolineare per l'ennesima volta la triste voce narrante, non potranno funzionare a lungo - "mi intendevo troppo con i miei due complici... non poteva durare" - e l'arresto da parte del commissario è la degna conclusione di quel menage che, però, aprirà le porte dell'amore a Michel.
Diario di un ladro è cinema classico nel vero senso dell'espressione, un cinema che non ha bisogno di troppe parole, perché la mdp racconta già abbastanza insinuandosi nelle pieghe della narrazione, cosicché la costante voce off del protagonista fa più da contrappunto laddove è necessario sottolineare qualcosa - un po' come il bel tema musicale di Johann Caspar Ferdinand Fischer (sui crediti però compare Jean-Baptiste Lully), che interviene in rarissime occasioni - che da reale necessità drammaturgica. Così, infatti, accade non solo per le linee di sceneggiatura già riportate, ma anche quando Michel analizza metodicamente i diversi sistemi ed esercizi per approcciare le vittime dei suoi furti: la tecnica del giornale, tra le cui pagine può nascondere i portafogli altrui, per esempio, oppure quella dell'orologio, per cui predispone persino una semplice simulazione tra le mura domestiche, che gli permette di riuscire a imparare come slacciare un cinturino con una sola mano. Eppure la scrittura di Bresson è fondamentale nel delineare il personaggio di Michel, un uomo tormentato che non riesce a pensare di dover lavorare per guadagnarsi da vivere - viene quasi in mente la frase di Chazz Palminteri, il modello negativo del piccolo Calogero in Bronx (De Niro 1993), che ripeteva "l'uomo che lavora è un fesso" - e lo conferma, come visto, giustificando le sue azioni con una personale versione del super io nietzschiano.
La sua idiosincrasia nei confronti del mondo e degli altri, che il volto del bravissimo LaSalle indica alla perfezione, in una sorta di Anthony Perkins inespressivo, è tutta nella rabbia che sfoga contro la povera Jeanne, sconvolta di aver scoperto le sue malefatte: "tu accetti tutto", le dice, riferendosi alle sue tristi vicende familiari di fronte alle quali ha continuato a condurre una vita priva di ribellione. E in effetti anche Jeanne appare colpevole nel cinema senza innocenti di Bresson: la sua tendenza all'accettazione la porta a rimanere sola dopo essere stata abbandonata, per di più con un figlio, da Jacques, un amico di Michel, che invece nonostante le premesse, sarà proprio colui che deciderà di prendersi cura della bella Jeanne.
Il cerchio narrativo si chiude così, con quella che è sicuramente la sequenza più lirica dell'intero film, quella che segna la redenzione di entrambi i personaggi divisi dalla grata della cella di Michel... una redenzione che, unita al disprezzo di Michel per la società, avrà ben presente Paul Schrader quando scriverà il soggetto del bellissimo Taxi driver (Scorsese 1976), ennesima conferma che in arte nulla nasce dal nulla...
Nessun commento:
Posta un commento