venerdì 30 settembre 2022

Moonage daydream (Morgen 2022)

Brett Morgen, documentarista statunitense che aveva realizzato, tra gli altri, Kurt Cobain: Montage of Heck, torna alle stelle della musica e stavolta sfodera un intenso, lisergico e ipnotico documentario dedicato a David Bowie, la cui caratteristica più sorprendente è che a parlare di David Bowie sia praticamente solo e sempre David Bowie stesso. Motivo per il quale, più del solito, se ne consiglia la visione in lingua originale (trailer).
Il film, di oltre due ore, inanella una lunga serie di interviste al Duca Bianco, solo filmati d'archivio con cui attraversiamo la sua vita e la sua carriera, dall'infanzia a Brixton, dov'era nato l'8 gennaio del 1947, fino all'uscita del suo venticinquesimo ed ultimo album, Blackstar, dell'8 gennaio 2016, due giorni prima che morisse.
Nella frase ad esergo della pellicola, Bowie cita Nietzsche e la morte di Dio che costringe gli uomini ad essere finalmente se stessi.
In tal senso, il contrasto più clamoroso evidenziato dal documentario è quello tra il conformismo e il perbenismo britannico e l'immagine di David Bowie, fatta di ambiguità sessuale, volto truccato, abiti sgargianti e tanto altro.
Di fronte ad un intervistatore che gli chiede cosa ne pensa che all'inizio degli anni '70 la bisessualità sia così accettata, risponde "prima tuo padre, mio padre cercavano stipendi per la famiglia, oggi ognuno vuole un ruolo nella società", sostenendo, di fatto, già a 25 anni quanto dirà rispetto a Nietzsche. Il giornalista è lo stesso che vedendogli indossare alte scarpe fucsia col tacco gli chiede se siano da uomo, da donna o da bisessuale, in cerca di definizioni "normalizzanti"... ricevendo in cambio una risposta in cui c'è tutta la naturalezza dissacrante del giovane David: "sono semplicemente scarpe, sciocco". 
A 14 anni il futuro Ziggy Stardust era già un modello e dopo i venti i suoi tormenti interiori gli permettevano di affermare "sto imparando a vivere senza dormire".
Il suo paese era davvero troppo asfissiante e tarpante per lui, "l'immaginazione può arrestarsi se vivi in Inghilterra", e questo non poteva certo permetterlo. Questa certezza lo portò a diventare un cittadino del mondo, Stati Uniti, la terra dei miti, Berlino, la città della libertà, dove anche le star vengono ignorate, e poi il Giappone, il Sud Est Asiatico e tanto altro: ci tiene a dire di non sentire l'esigenza di mettere radici in nessun luogo, né di comprare una casa, per sentirsi un po' a casa ovunque. Fino al matrimonio del 1992, a Firenze, con la splendida supermodella somala, Iman, sorprendente, bizzarro e forse anche per questo durato fino alla fine.
Il giudizio di David sulla propria famiglia è peggiore che sull'Inghilterra: tanti scheletri nell'armadio, genitori anaffettivi, il padre - ex militare e poi direttore di carcere - morto quando David era appena ventiduenne, con la madre nessun rapporto o quasi. "Non mi sono mai piaciute le cose da bambino", afferma senza dubbi, annullando ogni possibilità di indagare sulla sua infanzia.
La sua weltanschaaung è ottocentesca e romantica: l'artista vive in solitudine e percepisce tutto in modo amplificato. Non è certo un caso che la sua vena artistica sia poliedrica, e che quando prenda i pennelli per dipingere realizzi opere clamorosamente espressioniste, in cui quell'amplificazione interiore esce fuori in maniera dirompente: in quelle tele sembra di vedere Derain, Kirchner, persino Van Gogh.
È una necessità quella di tirar fuori i sentimenti almeno dipingendo, poiché, ripete, "mi sono costruito una corazza contro l'amore".
E poi l'incontro con Brian Eno, a Berlino, un nuovo modo di lavorare, per frammenti, alla Burroughs, altra influenza fondamentale, l'ennesima trasformazione della sua figura, del suo personaggio, un corpo usato come fosse una tela, come gli fa notare una giornalista che lo intervista. La risposta affermativa al quesito è corredata da un'altra frase pregnante della sua filosofia: "trovo l'arte un parallelo interessante della mia realtà percepita", tornando ancora su quell'amplificazione del sentire che lo pervade.
Eppure quel bisogno di autoanalisi sempre presente, che lo porta ad affondare nell'abisso: "è facile buttarsi nel lavoro per non guardarsi dentro. Io non sono il mio lavoro". Frasi come questa, che riguardano tutti, che ci toccano nel profondo.
David Bowie e il suo senso della vita, l'importanza di vivere il percorso e non fermarsi troppo a pensare agli obiettivi futuri, che possono paralizzare: "conta quello che fai nella vita, non quanto tempo hai o cosa avresti voluto fare".
E quei colori accesi, sempre vivi, tornano nel montaggio di Brett Morgen che ad essi alterna miriadi di citazioni cinematografiche: Metropolis di Fritz Lang su tutti, davvero un'ossessione, ma qua e là si riconoscono Il mago di Oz di Fleming, Viaggio nella luna di Méliès, e poi Buster Keaton, Ginger Rogers e Fred Astaire, 2001. Odissea nello spazio di Kubrick, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, ma anche Pasolini, Fellini e tanti altri.
Un bombardamento d'immagini quello a cui ci sottopone il regista, in un montaggio così fitto in cui parole, colori e musica, certo, anche quella, ovviamente, che ci mostra nel tempo le tante trasformazioni di Bowie sul palco, mentre canta, tra le altre, Life on MarsZiggy StardustStarman, Space Oddity, Heroes, Changes e, ovviamente, Moonage daydream.
Un solo appunto: da cinefili avremmo voluto qualche minuto in più per ricordare la sua carriera d'attore, da L'uomo che cadde sulla Terra (Roeg 1976), mai titolo migliore per lui, a Miriam si sveglia a mezzanotte (Scott 1983), compagno della vampira Catherine Deneuve, da Furyo (Ōshima 1983), indimenticabile il suo personaggio che turba quello di Ryūichi Sakamoto, a Tutto in una notte (Landis 1985), da L'ultima tentazione di Cristo (Scorsese 1988), il Ponzio Pilato più azzeccato della storia del cinema, a Fuoco cammina con me (Lynch 1992), cosa dire di più?, da Basquiat (Schnabel 1993) a The Prestige (Nolan 2006). Qualche fotogramma di alcuni film nei vari montaggi si riconosce, ma è davvero troppo poco. Non si può avere tutto da un solo documentario, comunque imperdibile e dal ritmo forsennato.

Basta guardarsi intorno, in sala, durante la proiezione, David Bowie suscita qualcosa di differente dall'ammirazione piena di foga dei Beatles o dei Rolling Stones, genera un sorta di adorazione contemplativa: i suoi fan di un tempo sono invecchiati, certo, ma davanti allo schermo sorridono, scattano foto, come se lo avessero lì davanti, sul palco, pronti a catturare l'ombra del Duca Bianco. 

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