sabato 24 settembre 2022

Il signore delle formiche (Amelio 2022)

Il cinema di Gianni Amelio è un cinema importante, dai contenuti mai banali e capace di affrontare storie che meritano di essere raccontate al grande pubblico, troppo spesso ignorate.
Stavolta, con Il signore delle formiche, narra una vicenda dell'Italia bigotta e conformista, quella del caso di Aldo Braibanti, intellettuale di Fiorenzuola d'Arda (Piacenza), omosessuale già torturato durante il Ventennio, che alla fine degli anni '60 venne coinvolto in un terribile e ingiusto processo per plagio di persona, rimasto allora il modo più semplice per assecondare le spinte omofobe, una consuetudine che rimase tale fino al 1981, quando venne cancellato dall'ordinamento penale italiano.
1965. Roma. Aldo (Luigi Lo Cascio) ed Ettore (Leonardo Maltese) parlano di poesia e si scambiano frasi sentimentali sulla punta meridionale dell'Isola Tiberina, in uno dei luoghi più romantici della città, di fronte a Ponte Rotto (trailer).
Aldo è un mirmecofilo, appassionato di formiche, ma anche un insegnante sui generis, che anni prima ha creato un laboratorio artistico nel torrione Farnese di Castell'Arquato, nei pressi di Piacenza, in cui riunisce gruppi di giovani a cui insegna poesia, letteratura, pittura, teatro.
Qui ha conosciuto Ettore Tagliaferri, fratello minore di un altro allievo, Riccardo, molto ancorato al pensiero gretto e reazionario della famiglia, che cerca di distogliere il fratello dalla possibile infatuazione per Aldo. Tra i due, invece, nascerà una storia improntata sì sulla particolare dinamica professore-studente, ma totalmente spontanea e romantica. La madre di Riccardo ed Ettore farà di tutto per ostacolare quella relazione, convinta che il figlio vada curato in un sanatorio a forza di elettroschock... 
Il film non racconta in maniera lineare la storia, e questo è uno dei suoi punti di forza, saltando tra il 1964, in cui Aldo ed Ettore si trasferiscono a Roma in una pensione, il 1959, nel quale i due si conoscono tra Parma e Castell'Arquato, ma anche il periodo del processo, che durerà dal 1964 al 1968. In questa parte della vicenda, il protagonista è Ennio Scribani (Elio Germano), giornalista de L'Unità, a cui il caporedattore (Giovanni Visentin) chiede di seguire il caso Braibanti, particolarmente sentito dalla testata, anche perché il professore è stato in passato un esponente del partito comunista al quale, però, ormai, il linguaggio politically correct del tempo consiglia di riferirsi con l'espressione "grande partito popolare", una perifrasi che Scribani non riesce proprio a tollerare...
Scribani è questo, un uomo tutto d'un pezzo, rigoroso: va dritto al punto, segue il processo schierandosi in maniera totale ed empatica dalla parte di Braibanti, tanto da suscitare dubbi nel direttore per avergli affidato un incarico su cui vorrebbe maggiore distanza di giudizio. 
Amelio, presente a due udienze di quel processo, cambia i nomi dei personaggi reali, eccezion fatta per il protagonista. Aldo ebbe la sua relazione con Giovanni Sanfratello e la denuncia per plagio arrivò dal padre del giovane, Ippolito, che fece curare il figlio al manicomio di Verona (leggi). Su tutta la storia, che portò a una condanna di nove anni per Braibanti, nel 1969 scrisse un libro Alberto Moravia, dal titolo Sotto il nome di plagio, com interventi tra gli altri di Umberto Eco, Mario Gozzano, Cesare Musatti e Ginevra Bompiani. Non è quindi un caso che, nella torre di Castell'Arquato, Aldo discute con Riccardo dopo avergli proposto di leggere Il disprezzo di Moravia (1954), sentendosi dire "non vuoi ammettere di aver sbagliato". E così, allo stesso modo, tra i manifestanti sulle scale del Palazzo di Giustizia - il cui slogan è "plagio reato vergogna dello Stato" -, Amelio dedica un cameo al volto di Emma Bonino, omaggio simbolico al Partito radicale (a cui allora non apparteneva), che tanto si batté contro il reato di plagio negli anni seguenti fino alla cancellazione del 1981.
Il regista calabrese racconta con grande capacità, attraverso le espressioni degli attori, i comportamenti dei personaggi, le giustapposizioni e i contrasti d'immagini, talvolta senza l'ausilio delle parole. È il caso della titolare della pensione Adua di Testaccio, con affaccio sulla Piramide Cestia, in cui si trasferiscono Aldo e Ettore: due stelle per la pensione, forse una per l'albergatrice. Il montaggio ci mostra prima il momento in cui la signora Tagliaferri va a "recuperare" suo figlio e poi quello precedente in cui i due arrivano a Roma. La donna è la perfetta esemplificazione del gretto attaccamento al denaro, per nulla stupida, utilizza la sua fine intelligenza per il tornaconto personale: bieca delatrice, per una lauta mancia fa entrare tutti a prendere il ragazzo per portarlo via da lì, in spregio alla riservatezza che il suo ruolo le imporrebbe, mentre appena arrivati, pur avendo capito il legame che c'è tra i due, li mette a proprio agio consigliandogli un letto matrimoniale invece che due letti separati, aggiungendo "che c'è di male che zio e nipote dormano insieme?"
Tante le scene rilevanti e significative. Il pranzo della famiglia Tagliaferri, un momento rituale per il benpensantismo della ricca borghesia di provincia, in cui il padre esprime le sue idee più reazionarie senza nemmeno alzare la testa dal piatto, e parlando con disprezzo di Braibanti ricorda che "quelli come lui li mandavano al confino... e facevano bene"; le sequenze all'interno della torre di Castell'Arquato; la felliniana scena della festa sulla terrazza romana, in cui il fotografo che viene impressionato dal volto di Ettore, pronuncia una frase che sembra uscita davvero da un film di Fellini, dicendo ad Aldo che non trova più il ragazzo: "stai cercando il tuo amichetto? Se l'è preso Roma".
E in effetti la sceneggiatura, tanto più in un film come questo, è determinante e sono diverse le frasi che restano in mente e segnano svolte all'interno della storia.
La rottura di Ettore con la famiglia è anticipata da una battuta di Aldo, che dopo aver sentito dal ragazzo che studia medicina per volere della mamma, ma che in realtà vorrebbe disegnare e dipingere, gli dice "non bisognerebbe mai seguire le idee dei genitori. Ci han messo al mondo, può bastare, no?"
E così la fuga di Aldo verso Roma è anticipata dall'efficace contrasto tra la lettera alla madre Susanna (Rita Bosello), ricca di toni affettuosi e la scritta che la donna trova davanti all'ingresso di casa, "casa del culatòn", che, unita agli attacchi e alle offese subite persino in chiesa dalla madre di Ettore, la spingeranno ad indicare la via al figlio, a cui dice abbracciandolo: "te ne devi andare da questo posto, non ti ho fatto per rimanere qua".
Eppure, dall'altra parte, non è solo la famiglia ignorante e retrograda di Ettore a pensarla così e non basta nemmeno aver studiato per emanciparsi da certe idee, come dimostra l'improbabile fidanzato avvocato di Graziella (Sara Serraiocco) - la cugina di Ennio che invece manifesta contro quell'ingiusto processo -, per il quale "gli invertiti hanno due strade: o si curano o s'ammazzano".
Riprendendo ancora un passo del j'accuse di Moravia, sono tanti ad appartenere ad "una società, per dirla con le parole dell'accusa, la cui 'mi­seria morale e intellettuale' è evidentissima a tutti, salvo beninteso, a coloro che ne fanno parte".
L'amore per la vita delle formiche che condivide con Aldo, suggerisce allo stesso Ettore una metafora politica, e parlando del loro doppio stomaco, "uno per sé, uno per chi ha fame", definisce il secondo uno "stomaco sociale".
Quelle sul processo sono altrettanto basilari. Ennio, quando va a trovare Aldo in carcere, per spingerlo a difendersi in aula gli fa capire che lui è ormai diventato un simbolo di una lotta che va oltre il suo singolo caso, "questo processo è davvero lo specchio del nostro paese, nell'aspetto più retrivo, più meschino, più criminale. è per quello che deve combattere".
Nonostante tutto, Aldo dichiara "non voglio essere un martire, né un mostro né un martire", consapevole che negli anni "sta cambiando la gente, non quello che hanno il potere", una verità amara che suona tale anche tanti anni dopo.
Ancora più bella e diretta è la testimonianza di Ettore, che al banco dei testimoni, nonostante gli anni di cure in manicomio a Verona, mantiene la lucidità e la fermezza per dire che "questo processo è assurdo, perché non c'è nessun colpevole, perché non c'è nessuna colpa".

Susanna nella piazza porticata di Roccabianca (Parma)
Tra le location di rilievo, a Roma, oltre l'isola Tiberina iniziale, la Piramide Cestia, visibile dalla pensione, il luogo della festa serale, con la terrazza che da un lato mostra Castel Sant'Angelo e dell'altro la mole della chiesa di San Salvatore in Lauro, sembra essere in un luogo tra via dei Coronari e palazzo Taverna, nella parte destra del cosiddetto Piccolo Tridente. Inoltre, Amelio gira tutte le fasi processuali nel calderiniano Palazzo di Giustizia, oggi Cassazione, per tutti i romani "il Palazzaccio", luogo da cinefili (lì è ambientato gran parte de Il processo di Orson Welles (1962), e poi a villa Giulia: nel Museo nazionale etrusco Aldo ed Ettore si soffermano a guardare il famosissimo Sarcofago degli sposi, per poi raggiungere il portico affrescato e il cortile, dove incontrano il migliore amico di Aldo, il "multiforme ingegno" Castellani, che li inviterà alla festa.
La casa dove vive la mamma di Aldo, Susanna, è sotto i portici di piazza Cavour, di Roccabianca, paesino in provincia di Parma.
In alcuni casi si fa notare anche la mdp, che perlopiù si limita ad accompagnare gli attori senza sussulti. Il momento dell'elettroshock, invece, è di grande impatto (ne subì 40 Ettore, come ricorda Moravia nel suo libro): la mdp inquadra il ragazzo, legato sul lettino, dall'alto, in una sorta di diagonale verticale, che tanto ricorda il Cristo di San Juan de la Cruz di Dalì (Glasgow, Kelvingrove Art Gallery and Museum). La mente però, non può non andare anche all'Ettore Garofalo legato su un lettino simile di Mamma Roma (Pasolini 1962), a sua volta desunto dal Cristo morto di Mantegna (Milano, Pinacoteca di Brera).
Anche la musica ha un ruolo importante, com'è ovvio che sia, sia nella contestualizzazione dell'epoca, sia per sottolineare alcuni momenti di rilievo, privi di parole.
Uno è quello in cui Manrico (Roberto Infurna), un ragazzo che indossa sistematicamente la maglia n.6 del Bologna, quasi un suo attributo identificativo, che vediamo appartarsi in campagna con Aldo dietro compenso, passa con la bicicletta sotto le finestre della torre a Castell'Arquato, per sedurre il professore (a sconfessare la sua futura testimonianza in tribunale, quando affermerà di essere stato soggiogato). La scena ha come sottofondo l'evocativa Io sono il vento, cantata da Marino Marini. E poi, in altri momenti, si riconoscono Patty Pravo ne La bambola, Anna Identici in Quando mi innamoro, Ornella Vanoni in Il tuo amore.
Voglio chiudere con la risposta che Aldo, dopo la festa romana, pronuncia di fronte a Ettore che non lo riconosce negli eccessi degli altri invitati: "io non sono come loro, ma sono anche come loro", intendendo con questo la necessità che tutti possano essere liberi di essere se stessi, riassumendo in poche parole le assurde critiche benpensanti di chi parla di moderazione nell'esternare la propria identità di genere, quel "sì, ma non troppo" che spesso viene invocato da chi prova a nascondere l'omofobia dietro l'educazione. Senza dimenticare che in Italia ancora oggi non ha mai messo fuorilegge i centri per le cure contro l'omosessualità (leggi). Per dirla con Braibanti, "io, a differenza di Socrate, so che le vostre leggi sono ingiuste".  

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