martedì 20 settembre 2022

L'immensità (Crialese 2022)

Emanuele Crialese ha realizzato il suo I quattrocento colpi, ambientato nella Roma agli inizi degli anni '70. Il risultato? Un gran bel melodramma autobiogafico, alla Douglas Sirk, in cui trama, interpretazione degli attori, scenografia, musica, filmati d'epoca alla tv e movimenti di macchina contribuiscono ad incollare lo spettatore alla poltrona.
La pellicola, presentata al 79° festival di Venezia, è stata accompagnata dal coming out del regista romano d'origine siciliana, che ha dichiarato, solo ora al grande pubblico, di essere nato femmina e di aver poi assunto negli anni la sua identità di genere, quella maschile (trailer).
L'immensità deve il suo titolo alla canzone di Don Backy, che ascoltiamo sui titoli di coda e che i cinefili più incalliti ricorderanno nell'esilarante versione "poetica" che Marino-Nino Manfredi recitava a Marisa-Pamela Tiffin in Straziami ma di baci saziami (Risi 1968). Qui, però, i toni sono completamente opposti e viviamo i drammi di una famiglia borghese che fa di tutto per nascondere i suoi problemi e la sua infelicità.
Clara Borghetti (Penélope Cruz) è mamma di tre figli, Adriana (Luana Giuliani), avuta da una precedente relazione con un connazionale spagnolo, Gino e Diana dall'attuale marito, Felice (Vincenzo Amato), siciliano. Il matrimonio va male, i due non condividono nulla, la donna si concentra esclusivamente sui figli, mentre suo marito vede altre donne. Tra i motivi di scontro, c'è proprio Adriana, bambina che si sente imprigionata in un corpo da femmina, vorrebbe chiamarsi Andrea e vivere come un maschio, una situazione inaccettabile per Felice, uomo dalla mentalità tipica del tempo, che vede i figli come propria estensione e ogni deroga alla confromistica idea di "normalità" un affronto alla propria reputazione. Non a caso, durante un litigio, esclamerà "io sono l'unica persona normale in questa casa", frase sconnessa e priva di senso in ogni situazione e ad ogni latitudine, ma in questo caso forse anche più de solito.
Clara è una mamma splendida, vive in simbiosi con i tre ragazzi e ha un rapporto privilegiato con Adri, che tratta quasi alla pari, forse anche troppo, investendola di responsabilità e di ruoli che non può avere alla sua età ("noi siamo piccoli, tu sei grande").
Crialese descrive i bei momenti di vita dei figli con la madre in tantissimi modi. Il più coinvolgente è indubbiamente quello attraverso la musica, cantata e ballata tutti insieme. La sequenza sulle note di Rumore di Raffaella Carrà è una di queste: i tre bambini aiutano la madre ad apparecchiare la tavola ballando e sorridendo, mentre Clara si muove come se fosse sul palco usando le posate come un microfono e imitando le movenze della Raffaella nazionale. Diventerà di certo una scena cult del cinema del regista romano.
La regia usa spesso i carrelli, sia laterali sia all'indietro, ad aprire lentamente lo spazio davanti agli occhi dello spettatore, e talvolta li sfrutta anche verticalmente con la mdp che sale verso l'alto. Con uno di questi Crialese dà inizio al film, mostrando proprio Adriana che lega un filo alle antenne televisive sulla terrazza condominiale e, guardando verso la mdp, idealmente il cielo, chiede "mandateme un segnale", un'invocazione agli extraterrestri nella sua ferma convinzione che le sue differenze dimostrino la provenienza da un altro pianeta: "io vengo da un'altra galassia e tu non hai i poteri per aggiustarmi" in uno dei suoi momenti di sconforto.
Con un carrello, peraltro, introduce anche il titolo del film, che entra ed esce di scena come se fosse una porta scorrevole e sia i titoli di testa che quelli di coda riprendono l'idea del filo di Adriana, un sottile tratto bianco che annodandosi delinea parole, ma anche nomi e cognomi degli interpreti.
Ad Adriana spettano altre diverse battute rilevanti della sceneggiatura: è lei a chiedersi se sia "più importante quello che abbiamo dentro o quello che abbiamo fuori?"; soffre di attacchi d'ansia, anche se poi spiega alla dottoressa, che le chiede se abbia mangiato qualcosa di strano, "ho mangiato tanti corpi di Cristo"; conosce intimamente sua madre, la difende dal padre persino infilandosi di soppiatto sotto al letto dei genitori, e può dirle con sicurezza che "quando ti trucchi, o esci o hai pianto".
Anche la piccola Diana, chiusa nell'armadio insieme ai fratelli per una prova di coraggio, pronuncia un'altra bellissima linea di sceneggiatura, chiedendo agli altri "ma perché dobbiamo essere coraggiosi?".
Tutto rimanda agli anni '70 nella scenografia e nei dettagli: dalla carta da parati alla moquette, dai mobili alla Polaroid, fino ai giochi dei bambini, che infatti vediamo usare il celebre Allegro chirurgo e aprire un album di figurine Panini. Al cinema, invece, Clara e i figli vanno a vedere Il dottor Zivago (1965), di cui Crialese non ci mostra alcuna immagine, ma riconosciamo la musica sulle cui note Penelope Cruz continua a piangere. E poi c'è tanta tv degli anni '70: oltre a quanto già descritto, in altre sequenze scorrono davanti agli occhi di Adriana anche le immagini di Prisencolinensinainciusol, nella bella versione cantata da Celentano, coreografata da Gino Landi e danzata dalla stessa Carrà e dal corpo di ballo della quarta puntata di Milleluci del 1974, per celebrare i vent'anni della RAI. 
Adriana adora il brano e, in un'altra sequenza di grande impatto, durante una messa in chiesa, immaginerà tutti coinvolti in quella coreografia a cantare e ballare il famoso pezzo dal testo grammelot, con la madre nei panni della Carrà e se stesso in quelli di Celentano. La medesima cosa accadrà più avanti con Grazie amore mio, la traduzione italiana di Where do I begin (il brano portante di Love Story), cantata da Patty Pravo e Johnny Dorelli in una puntata di Senza Rete, in cui Adriana si vede ancora in duetto con la madre.
Tante altre le sequenze che restano nella memoria, come quelle girate nella baraccopoli degli operai, in cui Adriana, che lì si presenta come Andrea, conosce una coetanea con cui vivrà i primi turbamenti sentimentali. Anche qui la regia eccelle e sfrutta i materiali edili di un deposito - il tipico "smorzo" romano - come cornici naturali delle inqudrature.
E lo stesso si può dire della scena vacanziera in una villa, che per atmosfere e alcune soluzioni ricorda il cinema di Paolo Sorrentino (es. la partita a carte, la scena sul prato), quasi citato anche nella visione al ralenti della suora, mentre i bambini che si calano nei sotterranei da un tombino, oltre a regalarci un bel surcadrage con i loro volti che si sporgono all'interno, fa pensare tanto a Stand by me (Reiner 1986) e all'idea di una piccola storia di formazione interrotta dall'intervento dei genitori.
Diverse le location romane riconoscibili: dal balcone dell'appartamento in cui vivono i Borghetti si vede la cupola di San Pietro in lontananza e lì, nella stessa zona, sono anche la baraccopoli e il deposito edile al di là del canneto che, per Clara, fa da colonne d'Ercole degli spazi prcorribili liberamente dai figli.
Clara e Adriana girano in Cinquecento nel centro di Roma e, quando Adriana apre il tettuccio dell'auto, vediamo anche i busti e gli stucchi della facciata di Palazzo Spada a Piazza Capodiferro; così come la decappottabile di Felice e le altre auto in partenza per le vacanze sfrecciano lungo le mura aureliane all'altezza di San Saba.
L'immensità è un film da non perdere, per contenuti, forma, tecnica e nostalgia di una Roma lontana. Complimenti davvero a Crialese, al suo quinto lungometraggio in carriera, ancora una volta con la marginalità come tema portante, ancora una volta con una pellicola di grandissimo livello.

1 commento: