venerdì 17 settembre 2021

Todo modo (Petri 1976)

"...il processo che Pasolini voleva e non poté intentare alla classe dirigente democristiana oggi è Petri a farlo. Ed è un processo che suona come un'esecuzione…
Così commentava il film Leonardo Sciascia, autore dell'omonimo romanzo da cui fu tratto, pubblicato nel 1974, e che potrebbe essere definito, con degli ossimori, un romanzo distopico realistico, consapevolmente profetico. Sta di fatto che la penultima pellicola di Petri, parte della cosiddetta trilogia della nevrosi, dopo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971), uscì il 30 aprile 1976, l'anno dopo Salò Le 120 giornate di Sodoma (1975) e pochi mesi dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, che era stato ucciso il 2 novembre 1975.
Con la pellicola del poeta e regista friulano condivide le atmosfere cupe e senza speranza, figlie dello stesso contesto in cui vennero realizzate, quegli anni di piombo che fornivano sempre più certezze sul totale degrado del sistema politico italiano, criticato apertamente, con le sue contraddizioni e la sua corruzione, che per trent'anni aveva visto governare la sola DC, partito dirigente che lo stesso Petri riteneva immerso in una «grande nube fetida che emana dal corpo tumescente delle istituzioni statali» (trailer).
Il titolo è una citazione parziale di "Todo modo para buscar la voluntad divina", frase degli Esercizi spirituali di sant'Ignazio da Loyola, che ben si attaglia al machiavellismo politico in cui ogni mezzo è lecito per raggiungere il proprio fine. Non a caso il film inizia con una frase del fondatore dei gesuiti, ordine che, non va dimenticato, ha la sua casa professa, in cui lo stesso sant'Ignazio morì il 31 luglio 1556, proprio nella piazza in cui sorge la chiesa del Gesù e quel palazzo Cenci-Bolognetti in cui la Democrazia Cristiana ha avuto la sua sede dal 1942 al 1994.
Ed è proprio per una sorta di ritiro spirituale, con l'obiettivo di espiare, rinnovarsi e di sanare fratture insanabili, che si ritrovano nel dorato e postmoderno eremo-albergo di Zafer, diretto da don Gaetano (Marcello Mastroianni), i più importanti politici, banchieri, industriali e dirigenti legati al partito che governa da decenni il Paese. Tra questi arriva, accompagnato dal suo autista (Franco Citti), anche il Presidente, dietro il quale si cela la figura di Aldo Moro, del quale Gian Maria Volontè, con la sua superba interpretazione, riproduce movenze, gesti, tic nervosi. Il suo studio del personaggio fu così attento, che i primi due giorni di girato dovettero essere buttati per l'eccessiva somiglianza con l'allora capo del governo, una resa che il regista non voleva fosse così esplicita per non incorrere nel rischio di censura totale.
Diverso il caso dell'altro uomo-simbolo della DC, Giulio Andreotti, qui semplicemente Lui (un'anonimia ripresa da Il divo di Sorrentino, 2008, che tanto deve a Todo Modo), nei cui panni recita Michel Piccoli: lo si comprende per il ruolo e per l'adorazione degli altri nei suoi confronti, ma non c'è nessuna volontà di riprodurne la figura.
La cornice distopica della vicenda è incredibilmente attuale, motivo per cui negli ultimi due anni si è parlato spesso del film di Petri. Una premessa, infatti, ci spiega che la storia si svolge durante un'epidemia che ha spinto il governo ad imporre la vaccinazione, dettagli assenti nel libro di Sciascia.
Le diverse sezioni della pellicola vengono scandite proprio dai temi ispirati agli esercizi spirituali, ma che, invece di essere divisi in quattro settimane, si susseguono in tre giorni, quelli che i politici trascorrono all'interno dell'albergo Zager: "la meditazione sul peccato", "il Santo Rosario", "la meditazione sull'Inferno", "la meditazione sulla croce". 
La sceneggiatura, scritta da Petri insieme a Berto Pelosso, regala diverse battute rilevanti, a partire da quelle messe in bocca a don Gaetano, capace di dire frasi sorprendenti come "il trionfo della Chiesa nei secoli è dovuto ai preti cattivi", ma anche "il peccato non esiste se non c'è il potere ad esercitarlo". Altro personaggio importante è l'onorevole Voltrano (Ciccio Ingrassia), spesso pronto a bacchettare i colleghi dal punto di vista etico - "siete morti senza saperlo" - anche se poi anche lui ha molto da farsi perdonare, come dimostra il suo utilizzo della frusta e del cilicio.
È lo stesso politico interpretato da Ingrassia, peraltro, che sente "odore di femmina", già proprio lui, che, nel suo ruolo più famoso in un film d'autore, era Teo che urlava da un albero "voglio una donna!" (Amarcord, Fellini 1973). Qui, invece, non solo riprende il Presidente che ha una donna in stanza (Mariangela Melato), ma gli ricorda che "u cummannare è mejo d'u fottere".
Tra queste frasi simboliche e altisonanti non manca l'ironia e, così, la battuta affidata al cardinale appena giunto a Zafer, che chiede di rialzarsi agli uomini che gli si inginocchiano davanti con "descendamus ut ascendamus", diventa comica dato che il prelato sta per prendere l'ascensore; così come il Presidente-Aldo Moro che nell'imbarazzo di orientarsi all'interno del grande salone dell'albergo, afferma "confondo sempre la destra con la sinistra", con chiaro riferimento al suo barcamenarsi politico, membro principe di quella che allora veniva comunemente chiamata la "sinistra DC".
Anche la componente grottesca è sempre presente, con delle atmosfere degne di Buñuel e anche de La grande abbuffata di Marco Ferreri (1973), e sono tanti i momenti in cui si sorride, nonostante la cupezza dell'insieme: le espressioni del Presidente, le chiavi dell'albergo (il Presidente ha la 602) con un grosso portachiavi a forma di croce; e se il grottesco è componente ferreriana per antonomasia, gli aspetti religiosi fanno istintivamente pensare a Fellini, in un continuo rimando tra i grandi nomi del cinema italiano di quegli anni. 
L'eremo, realizzato dallo scenografo Dante Ferretti all'interno della pineta di Castel Porziano, ad un passo dal litorale a sud di Roma, è una sorta di bunker in stile brutalista, ricco di opere d'arte. Qui e là vi si vedono statue a grandezza naturale in gesso monocromo, che tanto ricordano quelle di George Segal, il più rilevante scultore della pop art (anche Scorsese lo citerà in Fuori orario, 1985), le cui opere vennero celebrate come momenti di "sospensione metafisica", nulla di più adatta per una storia come questa. Nel salone principale spiccano, così, una statua di Cristo nell'atto di moltiplicare i pani e i pesci, con questi ultimi posti a mezz'aria, quasi volanti; un'Andata al Calvario, una Crocifissione e il gruppo dei soldati che si giocano a dadi la veste di Cristo, anche stavolta soggetti non certo casuali e da interpretare come allegoria della spartizione del bottino nella politica corrotta.
Rutilio Manetti, Sant'Antonio Abate tentato
dal diavolo
, 1630 ca., Siena, Sant'Agostino
L'armarium, dove don Gaetano tiene ostie e calice, è una teca metallica il cui stile occhieggia ad Arnaldo Pomodoro. Anche nella stanza dello stesso sacerdote, che tutti chiamano il diavolo, spiccano diverse opere, tra cui una plastica fusa di Burri rosso e nera, ça va sans dire. E poi il dipinto di Sant'Antonio Abate tentato dal diavolo, opera seicentesca del senese Rutilio Manetti (Siena, Sant'Agostino), che lo stesso Sciascia ammirò in una copia vista a Castellina in Chianti. Lo scrittore descrive il quadro attentamente nel romanzo e si sofferma sugli occhiali di Lucifero dalla montatura nera: nel film non c'è tutto questo, ma c'è l'opera nella cappellina privata di don Gaetano. 
E ancora, nei televisori, posti ovunque, quasi fossero dei dispositivi orwelliani, di sfuggita si vede il colonnato di San Pietro, ma anche documentari sulla storia dell'arte italiana (si riconoscono gli angeli del Giudizio Universale di Santa Cecilia dipinto da Cavallini, ma anche quello michelangiolesco della Cappella Sistina, con Caronte in bella vista.
A tutto questo si aggiunge anche uno spazio sepolcrale, catacombale, dove sono sepolti i gesuiti e dove si incontrano don Gaetano e il Presidente.
Una curiosità: nella "stanza segreta" del potente sacerdote, cui si accede ruotando una parete, c'è, tra liquori, bottiglie di vino, mazzette e un archivio con i fascicoli di tutti gli invitati a Zafer, un'intera collezione di Linus, fumetto amato da Petri, che aveva persino un cane chiamato Snoopy, mentre sua moglie, Paola Pegoraro, era stata soprannominata da Alberto Moravia Lucy, come il personaggio dei Peanuts, perché rompiscatole come lei.
Tutto è allusivo, anche il digiuno proposto da Voltrano è in realtà un invito a smettere di mangiare in senso figurato. Eppure anche le ostie spariranno, vittime di un furto, per poi ricomparire sulla tavola di uno dei membri del partito, che però nega completamente il suo coinvolgimento. Colpevole spergiuro o complotto ai suoi danni?
La foschia che aleggia sui rapporti tra i colleghi di partito, sempre divisi tra loro in correnti e fazioni, diventa sempre più fitta e i complotti diventano una realtà, quando si verificano le prime morti, trasformando Todo modo in un giallo, per i cui delitti viene chiamato ad indagare il procuratore Scalandri (Renato Salvatori). In questa sorta di Dieci piccoli indiani della politica italiana, però, trovare un colpevole è impossibile e ancora una volta, grottescamente (e allo stesso tempo realisticamente), il Presidente, con un'arzigogolata circonlocuzione degna del conte Mascetti, dichiara che potrebbe essere persino sant'Ignazio... d'altronde è sempre lui che di fronte ad una sparatoria afferma che "sono normali giochi di correnti".
Alla qualità del film contribuiscono anche tre grandi nomi del cinema italiano, Luigi Kuveiller, per la fotografia, Ruggero Mastroianni, per il montaggio, Ennio Morricone, per la musica. Quest'ultimo, però, sostituì Charles Mingus, inizialmente scelto per la colonna sonora, ma poi scartato addirittura da Renzo Arbore, allora compagno di Mariangela Melato, a cui Petri chiese un parere. Morricone, che con il regista romano aveva lavorato anche per Indagine su un cittadino a di sopra di ogni sospetto,  lo accontentò e modellò le musiche del film sulle composizioni del francese Olivier Messiaen, realizzando brani dissonanti e d'atmosfera (ascolta).
Tutto il film, però, può essere simboleggiato da una sola battuta, quella che don Gaetano rivolge al procuratore Scalandri: "spero non mi darà il dolore di dirmi che c'è ancora uno Stato".
Già osteggiato dalla sinistra (in epoca di compromesso storico) e ovviamente odiato dalla Democrazia Cristiana, due anni dopo il film divenne impresentabile: Aldo Moro prima sequestrato e poi ucciso dalle Brigate Rosse (16 marzo - 9 maggio 1978) fu un evento letale per Todo Modo, che apparve davvero troppo profetico e cadde nel dimenticatoio. Negli Stati Uniti, la Warner che dove distribuirlo, decise di non farlo uscire nelle sale. Nel 2014 è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna e oggi, complice anche la pandemia globale, è finalmente tornato ad interessare il pubblico.
Un capolavoro di enorme portata del cinema italiano da rivedere, da consigliare e davanti al quale discutere.

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