Pochi fotogrammi sul lungomare e il Vesuvio sullo sfondo fanno da introduzione al bel film di Mario Martone su Eduardo Scarpetta (1853-1925), convinto che il suo personaggio principe, Felice Sciosciammocca, sarebbe stato più longevo di Pulcinella...
Interpretato da un sontuoso Toni Servillo, naturalmente e giustamente gigionesco in questo ruolo, l'attore e commediografo napoletano ne esce maluccio: vanesio, egocentrico persino a discapito dei figli, poligamo ma incapace di riconoscere i diversi figli illegittimi, costretti a chiamarlo zio pur sapendo la verità (trailer).
La vicenda narrata inizia quando tutto questo è già realtà. Martone non ci racconta i primi successi di Scarpetta, quando nella compagnia di Antonio Petito (1822-76) interpreta Sciosciammocca per le prime volte, poiché era stato proprio Petito a crearlo come ideale spalla per il suo Pulcinella. Sciosciamocca (letteralmente "respira a bocca aperta") è un credulone, un ingenuo, uno stupido: il naturale erede dei personaggi della Commedia dell'Arte, ma aggiornato ai tempi e membro della piccola borghesia, vestito con bombetta, cilindro in testa, scarpe grandi e bastone, come lo Charlot di Chaplin e, sul finire del film, Martone non può farsi sfuggire l'associazione che gli permette di omaggiare anche un po' di storia del cinema, mostrando Scarpetta che passeggia di spalle così abbigliato.
Scarpetta nei panni di Felice Sciosciammocca |
Eduardo Scarpetta mangia pizza, sfogliatelle, fa le parti per tutti al pranzo della domenica, destinando la porzione migliore al piccolo Eduardo De Filippo: lui decide tutto e si comporta come un capofamiglia dell'ancien régime, con tanto di corte costituita da parenti e membri della compagnia. Anche per questo, oltre al palazzo in via Vittoria Colonna, nel quartiere di Chiaia, si fa costruire un castello neorinascimentale sul Vomero, con tanto di torri angolari, Villa La Santarella (via Luigia Sanfelice), ne diventa a pieno titolo il signorotto e, in facciata, ci fa scrivere proprio "Qui rido io", il titolo scelto per il film. Guardando lassù il popolo napoletano può vedere quando il suo eroe sta festeggiando qualcosa, tra cibo, abiti eleganti e fuochi d'artificio, in un contrasto che è quello di Miseria e nobiltà (1887), forse la più celebre delle commedie di Scarpetta, che nella realtà è l'opposto di ciò che è a teatro: lì il misero Sciosciammocca che si avventa sugli spaghetti (la fame soddisfatta è messa in scena nel film), nella vita il ricco che gioca a fare il nobile senza esserlo.
Gli spaghetti di Miseria e nobiltà |
Una moglie, Rosa De Filippo (Maria Nazionale), da cui ha avuto Vincenzo (Eduardo Scarpetta, discendente reale del drammaturgo), anche se come figli della coppia vengono riconosciuti anche Domenico, che la donna ha partorito dopo una relazione con Vittorio Emanuele II e che fa da ragioniere alla compagnia, e Maria (Greta Esposito), che invece è nata da una relazione extraconiugale di Eduardo con la maestra di musica Francesca Giannetti.
La moglie di Scarpetta precisa l'asse ereditario |
I nove figli di Scarpetta, nell'ottica già descritta del teatro scarpettiano, si ritrovano a interpretare personaggi delle commedie messe in scena e, principalmente, il Peppiniello di Miseria e nobiltà, quello che dovrà ripetere sul palco "Vincenz' m'è pate a me", la celebre battuta-tormentone del finale della commedia.
Questa mentalità lo porta a sopravanzare fisicamente in scena anche Vincenzo, pur di ottenere l'applauso del pubblico e l'effetto sorpresa per il proprio inaspettato ingresso; e, per lo stesso motivo, si oppone strenuamente contro la richiesta di indipendenza artistica dello stesso figlio, già affascinato dalle possibilità della nuova arte, il cinema.
Questa mentalità lo porta a sopravanzare fisicamente in scena anche Vincenzo, pur di ottenere l'applauso del pubblico e l'effetto sorpresa per il proprio inaspettato ingresso; e, per lo stesso motivo, si oppone strenuamente contro la richiesta di indipendenza artistica dello stesso figlio, già affascinato dalle possibilità della nuova arte, il cinema.
Vincenzo commenta "che bella famiglia!" |
I costumi, di Ursula Patzak, e soprattutto la scenografia, di Giancarlo Muselli e Carlo Rescigno, sono un elemento determinante per la qualità estetica della pellicola. La belle epoque traspare dai vestiti e, in un paio di sequenze, dagli splendidi cappelli piumati delle signore, degni dei dipinti di Giovanni Boldini, mentre gli ambienti sono curati nei minimi dettagli ed è un piacere soffermarsi ad osservare i bellissimi pavimenti in graniglia con inserti di motivi vegetali neri, i mobili e i divani in stile impero.
Al centro della storia, oltre le intricate vicende familiari vissute apertamente e alla luce del sole per tutti, ma con determinate gerarchie interne - e con un figlio, Peppino, fatto crescere in campagna -, il noto episodio legato alla commedia Il figlio di Iorio, parodia che Scarpetta scrisse dopo aver visto il dramma pastorale di Gabriele d'Annunzio, La figlia di Iorio, a Roma (anche se la prima si tenne al Teatro lirico di Milano, il 2 marzo 1904). La sequenza dell'incontro di Scarpetta e del suo amico e collega Gennaro Pantalena, per chiedere l'avallo del poeta abruzzese alla messa in scena della parodia, è uno dei momenti clou del film: in pochi tratti, D'Annunzio viene presentato come un personaggio obliquo, viscido, falso, in un ambiente cupo (qui la scenografia è ancora una volta straordinaria), tra vetrate e lampade liberty, un salone affastellato di oggetti sormontato da una balaustra da cui si affacciano personaggi lascivi e mefistofelici che alludono a giornate di sesso promiscuo e perverso.
Toni Servillo dà il meglio di sé, conferendo al suo personaggio una parvenza di improbabile servilismo, dietro cui si nasconde la reale considerazione nei confronti del Vate, quella di un pallone gonfiato, di cui, una volta a casa, ironizza sul cognome reale, Rapagnetta, e quella pomposità ostentata che è figlia del favore dei potenti del momento.
La commedia di Scarpetta, rappresentata per la prima volta al Teatro Mercadante di Napoli il 3 dicembre 1904, fu sabotata da alcuni fischiatori inviati appositamente dall'alto. Da lì nacque il processo intentato da D'Annunzio con accusa di plagio, che coinvolse diversi letterati del tempo, tra cui Salvatore Di Giacomo, dalla parte del Vate, e Benedetto Croce che, in un'altra interessante sequenza ("D'Annunzio che fa il Vate è ridicolo, non io" dice Scarpetta), consiglia al commediografo napoletano la linea da seguire per la difesa, denigrando però, di fatto, il prodotto "piccolo" della sua parodia, da considerare un fallimento e nulla di più, precisando che per un'opera brutta non si viene però condannati.
La scena dell'autodifesa di Scarpetta in tribunale è l'ennesimo capolavoro interpretativo di Servillo che, in preda al massimo dell'istrionismo di cui è capace, recita col volto e col corpo, fino a una risata coinvolgente e definitiva.
La scena dell'autodifesa di Scarpetta in tribunale è l'ennesimo capolavoro interpretativo di Servillo che, in preda al massimo dell'istrionismo di cui è capace, recita col volto e col corpo, fino a una risata coinvolgente e definitiva.
Una curiosità: in una scena, Scarpetta gioca a carte con uno dei figli, ma le carte che vediamo sono le piacentine e non le napoletane... un errore o un vezzo magari noto, ma non a chi scrive, a casa Scarpetta?
Nel film di Martone, sembra giusto sottolinearlo, la vita è più teatrale del teatro stesso, ogni sequenza è una rappresentazione, ma alcune volte qualcosa è davvero troppo sopra le righe: è il caso del momento simbolico in cui Scarpetta entra a teatro e sul palco trova il feretro di Pulcinella, sotto la cui maschera vede se stesso, riflessione sull'impossibile eternità dei personaggi, assurdamente pretesa da Scarpetta per il suo Sciosciammocca; e così Eduardino che, per convincere Peppino a interpretare Peppiniello per un padre dichiaratamente odiato, gli dice "vuoi la libertà? La nostra libertà è la sopra" indicandogli il palco.
Peppino non vuole rimanere a casa Scarpetta |
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