sabato 19 dicembre 2020

Time (Ki-duk 2006)

Immagini di chirurgia plastica in atto fanno da silenziosa introduzione al film di Kim ki-duk, che pone i ritocchi estetici al centro di una intrigante e complessa trama che li vede protagonisti al pari della gelosia e dell'insicurezza nelle relazioni.
Due centri scenici dominano la pellicola: un piccolo bistrot e il parco delle sculture di Baemigumi dell'artista coreano Lee Ilh-ho (2002), sull'isola di Mo, a quaranta chilometri da Seul, facilmente raggiungibile con dei brevi viaggi in traghetto. Praticamente tutto ciò che viene narrato nel film accade in questi due luoghi (trailer).
Il regista coreano ci mostra i due personaggi principali seduti a un tavolo del locale: Ji-woo (Ha Jung-woo) e la fidanzata Seh-hee (Sung Hyun-ah) battibeccano subito, basta che lui scambi due parole con la cameriera o che lasci un biglietto da visita ad una ragazza che gli ha causato un danno all'automobile e si ritrova costretto a subire delle feroci critiche. La gelosia di Seh-hee è irrazionale e totalmente incontrollata e, una volta placata la sua ira, tutto ciò che riesce a dire al ragazzo è "ogni volta che vedo una donna che ti guarda, vorrei strapparle gli occhi".
Persino il momento potenzialmente migliore dei loro litigi, quello della pace più intima, è funestato dalla morbosità di Seh-hee, così dominata dalla propria gelosia al punto da chiedere a Ji-woo di pensare ad un'altra donna mentre fa l'amore con lei. Questo atteggiamento, però, la condurrà ben oltre, dal chirurgo estetico, a cui chiederà qualcosa di preciso, "non voglio essere più bella [...] voglio solo essere diversa", convinta che sia l'unico modo per rimanere aggrappata alla storia con Ji-woo, che indubbiamente ama, ma in maniera patologica. Naturalmente non sarà così facile, poiché non basta modificare le proprie fattezze, scegliendone i dettagli e ritagliandoli da un rivista, per riaccendere la passione, quando i problemi sono ben altri.
L'altro luogo, il parco delle sculture, è introdotto da una foto nell'appartamento dei due fidanzati, che li ritrae seduti su una scultura costituita da due mani aperte, le cui dita fungono da scalini della scultura stessa. Sarà solo la prima immagine di un posto in cui vedremo tornare spesso soprattutto Ji-woo, che lì passeggia con altre ragazze, che cerca di frequentare per superare la sua storia precedente e alle quali non fa che ripetere "d'altronde sono un uomo", giustificando così semplicisticamente le proprie azioni.
La sua storia di partenza, però, non lo abbandonerà e, fatalmente, gli capiterà di uscire con quella donna dal volto nuovo, che però dimostrerà il suo solito disturbo, giungendo persino, di fatto, a provare gelosia per se stessa.
Anche Seh-he avrà altri uomini e a tutti chiederà "come ti sembra la mia mano?", "quando hai pianto l'ultima volta?", "quando hai riso ultima volta?" Una serie di domande che confermano la sua ossessività.
Quanto fatto a Seh-hee, assecondando i suoi insani capricci, giustifica gli sfoghi di Ji-woo contro il chirurgo estetico. Per il ragazzo lo slogan della clinica, "Do you want a new life", è un affronto, poiché non è sufficiente così poco per ottenerla e, inevitabilmente, lo scontro deflagrerà nella violenza. Ma dopo aver toccato il fondo, Ji-Woo chiederà proprio allo stesso chirurgo di intervenire anche sul suo volto. Ji-woo e Seh-hee, in fondo, sono un uomo e una donna che vivono due volte, e la perfetta circolarità della vicenda narrata, peraltro, sembra ribadirlo, fino al parossismo di rivelarci che è la stessa donna a scontrarsi con la futura se stessa, rompendo una cornice con la propria foto che ne ritrae la versione intermedia tra i due estremi...

Il regista coreano, infine, oltre alle opere sull'isola,  ricorre più volte (almeno tre) all'immagine dei volti coperti da un lenzuolo, che rimandano inequivocabilmente a Gli amanti di Magritte del MoMA di New York (1928), anche se qui declinati in maniera opposta, alla chiusura, all'isolamento: a farlo per prima è Seh-hee che, a letto, si vergogna dei propri comportamenti irrazionali e si copre come può. 
Kim ki-duk cita Magritte, la sua opera strizza l'occhio all'occidente e il suo Time appare una critica profonda alle ossessioni che caratterizzano quella parte del globo che fa da traino a quella considerata restante. 
Il regista coreano mette in scena la consueta poetica spiazzante tipica della sua filmografia e realizza un film incentrato sul senso di identità (notare anche l'uso delle maschere in tal senso), sull'ossessione del corpo e sulla chirurgia estetica al giorno d'oggi, che diventa aberrazione psicologica a cui vengono affidate le proprie insicurezze.
Essere o non essere, cioè apparire, potrebbe risultare il più appropriato sottotitolo di un film destabilizzante e amaro, in cui nessuno esce vincitore. A confermarlo c'è il teschio nello studio del chirurgo, che fa immediatamente pensare all'Amleto e al suo celebre monologo con in mano il cranio del buffone di corte Yorick...

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