Avrebbe compiuto sessant'anni tra pochi giorni... un anno odioso e sempre più insopportabile si porta via anche Kim Ki-duk, il regista sudcoreano che tante volte ci aveva strabiliato con la sua poesia, raccontandoci l'amore come non lo avevamo mai immaginato, stroncato da complicazioni dovute al Covid mentre era a Riga, in Lettonia, dove si trovava per acquistare una casa e per lavorare al suo prossimo film: Rain, Snow, Cloud and Fog.
Era nato nel 1960 in Corea del Sud, a Bonghwa, e a soli sette anni era emigrato con i propri genitori in difficoltà economiche. Dopo aver studiato agricoltura, appena maggiorenne aveva lavorato come operaio in fabbrica prima e quindi come soldato della marina. In seguito la conversione al cattolicesimo e persino la tentazione di diventare un predicatore, poi la pittura lo condusse a Parigi, dove si trasferì ancora trentenne, vivendo dei suoi quadri, come un artista bohemien due secoli dopo.
The Birdcage Inn |
Due anni dopo fu la volta di The Birdcage Inn (1998), storia di una prostituta bistrattata dalla padrona del motel in cui vive, due donne socialmente distanti, ma che, tra violenze, tentati suicidi, frustrazioni sessuali, arriveranno a scambiarsi i ruoli.
L'isola |
E poi L'isola, che sconvolse Venezia nel 2000 con una storia di sesso, anche violento, tra una ragazza che affitta case galleggianti su un lago e un ragazzo che pensa al suicidio. È il film che consacrò la figura di Kim Ki Duk come autore in occidente.
Seguirono Real Fiction (2000), racconto di un pittore di strada che, dopo anni di insulti ricevuti dai passanti, trova il modo di vendicarsi, e Indirizzo sconosciuto (2001), storia di tre adolescenti uniti dall'assenza dei rispettivi padri.
In Bad Guy (2001) l'amore nasceva tra due sconosciuti, ma anche qui la storia era condita da prostituzione, violenza e suicidi. Tra questo e i successivi capolavori, Kim Ki Duk girò The Coast Guard (2002), film antimilitarista in cui una guardia costiera, nell'ossessione di dover fronteggiare l'arrivo di una spia, spara ad un ragazzo per accoppiarsi con la sua compagna.
Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera |
Nel 2004 arrivò l'Orso d'argento per la miglior regia a Berlino, grazie a La samaritana, film che racconta ancora una volta una storia in cui si alternano temi come l'amicizia, la prostituzione, il suicidio e, infine, il rapporto padre-figlia; ma anche il Premio speciale per la regia a Venezia, con Ferro 3 - La casa vuota, vicenda di un ragazzo che vive occupando case altrui temporaneamente vuote, prendendosene cura.
L'anno successivo fu la volta de L'arco (2005), storia di un anziano pescatore che predice il futuro con la sua arma e che attende di sposare la ragazza accolta sulla sua barca quando era solo una bambina e che, da allora, non ha mai più messo piede sulla terraferma.
Ferro 3 - La casa vuota |
Con Time (2006), Kim Ki Duk è entrato nelle pieghe più strazianti di un rapporto di coppia, nel quale il tempo genera ansie di perdita che conducono la protagonista a ricorrere al chirurgo plastico, in modo da offrire un nuovo inizio all'uomo che ama, scoprendo che non tutto è così semplice.
Sono seguiti Soffio (2007) e Dream (2008), rispettivamente storia d'amore tra una casalinga in depressione e un condannato a morte e storia onirica in cui il sogno si fonde con la realtà. Proprio un incidente sul set di quest'ultimo film, in cui l'attrice Lee Na-yeong ha rischiato la vita girando la scena del proprio suicidio per impiccagione, ha spinto Kim Ki Duk a ritirarsi in montagna, lontano dal cinema, realizzando comunque Arirang (2011), una lunga autointervista su quell'avvenimento, condita però di spezzoni non accaduti, che trasformano la pellicola in un falso documentario.
Time |
Dopo Amen (2011), in cui una ragazza viene molestata da un uomo dal volto coperto da una maschera antigas, il regista coreano ha girato Pietà (2012), ispirato alla celebre statua che Michelangelo scolpì per il cardinale Jean de Bilhères, che qui diventa il sottotesto di una storia che vede protagonisti un uomo che lavora per un violento usuraio di Seoul e una donna che sostiene di essere la madre che non ha mai conosciuto. È il film che è valso a Kim Ki Duk il Leone d'oro a Venezia.
La pellicola seguente è stata Moebius (2013), atroce nella sua essenzialità cinematografica priva di dialoghi, tra sesso, violenza, autoerotismo, evirazioni e ricerca di orgasmi nel dolore. È il film per il quale il regista è stato coinvolto nelle polemiche #metoo, denunciato da un'attrice rimasta ignota, ma scartata già durante le riprese e sostituita da Lee Eun-woo.
Pietà |
Le ultime due pellicole non sono mai state distribuite in Italia e, per alcuni versi, poco male, dato che le versioni doppiate delle opere di Kim Ki Duk non rendono giustizia al cineasta sudcoreano.
Ventitré film, alcuni bellissimi, tutti indubbiamente validi e capaci di illustrare una poetica mai banale, in grado di abbinare momenti di puro lirismo al più crudo realismo, in cui amore, dolore e violenza sono sempre stati parti di un tutto, per poi inabissarsi in profondità psicologiche raramente raggiunte al cinema.
Ci mancheranno le sue immagini e i pienissimi silenzi delle sue opere. Non vedremo mai Pioggia, neve, nubi e nebbia, che già nel titolo ci faceva sognare... non ci resterà che riguardare i suoi film, certi di trovare sempre qualcosa di nuovo che ci era sfuggito alla prima visione.
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