sabato 12 ottobre 2019

La donna dello scrittore (Petzold 2018)

La Seconda guerra mondiale accade nei nostri giorni, Parigi è occupata dai nazisti, i dissidenti devono nascondersi, mentre poliziotti in assetto antisommossa, auto e ambulanze moderne si aggirano per la città (trailer).
È questo il primo elemento con cui fare i conti guardando il bel film del regista tedesco Christian Petzold, un fattore che accresce lo straniamento e che di fatto rappresenta la principale distanza nell'adattamento del romanzo di Anna Seghers, Transit (1944), ambientato durante la guerra.
L'infelice titolo italiano, in questo caso ancora più incomprensibile del solito, dato che anche il libro in Italia è stato alternamente pubblicato con i titoli Transito o Visto di transito, cancella del tutto il tema principale della pellicola, connesso alla necessità dei protagonisti di uscire dal paese. Un'esigenza, quest'ultima, che l'ambientazione contemporanea contribuisce a far riflettere sulla difficile realtà odierna, ed eterna, di chi è costretto ad emigrare, un tema molto caro allo storico cosceneggiatore di Petzold, Harun Farocki (1944-2014), figlio di profughi e responsabile dell'avvicinamento del regista al testo di Anna Seghers.
Georg (Franz Rogowski), infatti, si sposta da Parigi a Marsiglia con l'obiettivo di ottenere l'agognato visto per andare al di là dell'oceano, dopo aver assunto l'identità dello scrittore Weidel, morto suicida, lasciando vedova la moglie Marie (Paula Beer).
La morte del compagno di viaggio, Heinz (Ronald Kukulies), lo obbliga moralmente a conoscere la sua famiglia, mentre la nuova identità lo renderà marito di una donna di cui né lui né lo spettatore sa nulla, un'apparizione che fluttua attorno al protagonista e che ha già un compagno, Richard (Godehard Giese)...

Tra le sequenze più toccanti del film va inserita di diritto quella dell'arrivo di Georg al cospetto di Driss, il figlio di Heinz, con cui gioca a calcio facendogli da comprimario come portiere per i suoi tiri, anche perché, come precisa il bambino per convincerlo, "i tedeschi amano i loro portieri". Con la madre del piccolo, Melissa (Maryam Zaree), invece, le cose saranno più complesse e non solo perché la donna è sordomuta, ma l'atteggiamento di Georg alla fine renderà più aperta nei suoi confronti anche lei.
I personaggi comunicano poco, lo fanno con gli sguardi e soprattutto muovendosi in uno spazio che li determina, attraverso continue casualità e deviazioni di rotta, di cui sono simbolo evidente gli scambi dei binari che il regista non manca di evidenziare: il gioco, la morte, il viaggio, sono tutte coordinate impazzite che modificano continuamente gli eventi e lasciano i protagonisti in un costante equilibrio precario.
Com'è stato giustamente sottolineato (leggi), il cinema di Petzold è un cinema di fantasmi e, non a caso, l'impalpabile presenza di Marie si conferma tale sin dalla sua prima apparizione, che avviene sotto il filtro algido e meccanico di una telecamera di sorveglianza.
La voce off, come quella del narratore del libro, ci accompagna nella storia e ci avvicina anche alla particolarissima relazione tra Georg e Marie che, da perfetti sconosciuti, si ritrovano a confidarsi e a fare l'amore.
"Chi dimentica più in fretta, chi è stato abbandonato o chi ha lasciato l'altro?" chiede la donna a Georg, rivelandoci di essere stata lei a lasciare il marito e di sentirsi, paradossalmente, l'anello debole della coppia, anche perché "per chi abbandona non c'è compassione né una canzone", tra le battute più belle e sorprendenti della sceneggiatura, al pari di "non si condivide la gioia altrui quando si è colpiti da sventura", che sottolinea l'invidia per la felicità degli altri, soprattutto in prossimità di eventi così devastanti come un guerra.
E talvolta, anche la buona sorte non è dalla parte di chi sembra aver trovato la soluzione... ma chissà.
In un finale aperto come non mai il chissà è d'obbligo, allo spettatore il compito di scegliere tra l'ottimismo verso il futuro o meno.

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