giovedì 24 ottobre 2019

Yoshiwara, Il quartiere delle geishe (Ophüls 1937)

Con un sottotitolo italiano degno di un film di Kenji Mizoguchi, Yoshiwara, pur ricordando le atmosfere che vent'anni dopo il maestro giapponese otterrà in capolavori come La vita di O-Haru (1952), Una donna di cui si parla (1954) e La strada della vergogna (1956), è ben diverso da quei melodrammi che analizzeranno alcuni aspetti della contraddittoria società nipponica.
La pellicola di Max Ophüls, infatti, è decisamente europea, e il Giappone è solo uno sfondo esotico che permette al grande regista tedesco di toccare i suoi temi prediletti come l'amore, mai semplice né durevole, e il sogno, che lo caratterizza nei picchi più alti.
La storia è ambientata durante la prima guerra sino-giapponese (1894-95): una nave russa approda a Tokyo e, per tutto l'equipaggio, l'obiettivo dichiarato è il quartiere a luci rosse di Yoshiwara, come sentenzia il capitano: "tutti conoscete le stupidaggini da evitare, ma probabilmente siete altrettanto convinti di compierle".
Il tenente Serge Polenoff  (Pierre Richard-Willm) è diverso dagli altri: lo dimostra in cabina, mentre studia storia dell'arte durante il viaggio, e lo dimostrerà ancor di più una volta a terra, quando allontanerà un commilitone ubriaco dalla stanza di una giovane geisha, Kohana (Michiko Tanaka), di cui si innamorerà perdutamente. Serge otterrà una missione che gli permetterà di rimanere in Giappone, e anche se solo per due settimane, vivrà una splendida storia d'amore con Kohana, fatta di condivisione e di un futuro vagheggiato insieme a Pietroburgo. Le cose, però, si complicheranno a causa di questioni politiche e di spionaggio, in cui avrà una parte rilevante anche Ysamo (Sessue Hayakawa), servitore e guidatore di risciò innamorato di Kohana e al servizio di Serge.
Il soggetto è tratto da un romanzo di Maurice Dekobra, scrittore di amori esotici, che tra gli anni '20 e '40 del XX secolo ebbe grande successo e che evidentemente, in questo caso, recupera l'intreccio riproducendo gli intrecci del teatro classico. Adattato dallo stesso Ophüls, con la collaborazione di Arnold Lippschutz, Jacques Dapoigny e Wolfgang Wilhelm, il film si avvale anche delle musiche di Paul Dessau e dell'ottima fotografia di Eugen Schüfftan, già direttore della fotografia per registi del calibro di Fritz Lang (I nibelunghi, 1924 e Metropolis 1927), e Abel Gance (Napoleone, 1927).
E proprio con Metropolis di Lang il film di Ophüls ha un'altra curiosa connessione, poiché il locale in cui avveniva la provocante danza di Maria danza si chiamava proprio Yoshiwara (vedi).

È straniante vedere,  Willm e gli altri "russi" parlare francese, così come tutti i personaggi nipponici, ma superato quest'ostacolo, il film è davvero piacevole con la sua straordinaria capacità di passare dai toni iniziali della commedia a quelli della storia d'amore, fino al melodramma ricco di pathos.
Girato completamente negli studi di posa e con un continuo ricorso all'effetto notte, conserva i suoi aspetti teatrali anche nei dettagli scenografici, come le porte di carta di riso che gli attori faticano ad aprire. Poi, però, il film ha Ophüls dietro la mdp, il che, anche in un'opera minore, è determinante.
La sua leggerezza e il suo tocco sono ovunque: dall'attore secondario che scende le scale scivolando  seduto sul corrimano ai sipari ottenuti attraverso l'apertura dei ventagli che passano in rassegna le varie geishe di Yoshiwara.
Lo "sfondato" onirico di Max Ophüls
La sua firma, però, è ancora più evidente quando Serge si ritrova a spiegare a Kohana cosa sia l'opera e, avvicinandosi ad una parete improvvisamente la sua immaginazione si fa concreta e mostra, disegnato, il palco di un teatro, in una sorta di sfondato barocco, che prosegue subito dopo mentre, seduto su un tavolo, finge di guidare una carrozza per accompagnare la propria dama per le vie di Pietroburgo, anch'esse parte della scenografia che riproduce i pensieri del personaggio, un po' come accadrà undici anni dopo in uno dei suoi massimi capolavori, Lettera da una sconosciuta (1948), dove saranno Stefan-Louis Jourdan e Lisa-Joan Fontaine a vivere esperienze simili immaginando viaggi insieme stando fermi in un treno del luna park di Vienna. Eppure, anche in questi momenti, Ophüls non rinuncia ai toni della commedia, facendo cadere da una poltrona Kohana, abituata ovviamente a sedersi sul tatami, e a mostrarla meravigliata, alla fine dello spettacolo immaginato, all'applauso di Serge, che nella sua vita quotidiana è un semplice gesto per chiamare un servitore.
Sul confronto tra le due culture, è incentrato anche il bel montaggio (Pierre Méguérian) che unisce i loro momenti più romantici a Tokyo, con Kohana che festeggia i primi dodici giorni insieme montando in giardino altrettante lanterne in carta di riso, ma anche Serge che la conduce nella cappella dei missionari russi, dove le spiega l'importanza di quel luogo e di quell'altare nella scansione dei momenti rituali della vita di un cristiano, dopo che la donna,  poco prima di entrare, gli aveva chiesto "è gentile il tuo Dio?".
Tra le sequenze migliori, inoltre, il malinconico canto di Kohana che, accompagnata dal suono del suo  shamisen, lo strumento a tre corde tanto usato nel teatro Kabuki, chiede al vento di non soffiare più, poiché, seppur solo nell'esagerazione poetica, è quello che può far tornare la nave di Serge a Tokyo e portarlo via da lei (vedi). Proprio quel vento, peraltro, verrà utilizzato da Ophüls come metafora e sarà proprio il montaggio di grosse onde nel mare e alberi scossi dal vento (tra i pochissimi fotogrammi girati in esterno di tutto il film) a preannunciare il cambio di rotta della storia d'amore dei protagonisti.
Un Ophüls minore, ma quanto bel cinema... 

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