mercoledì 18 settembre 2019

Martin Eden (Marcello 2019)

Tra le prime immagini di Martin Eden, mentre il protagonista riflette sull'ineluttabilità di soccombere ad un mondo più forte di lui, compaiono pochi fotogrammi d'epoca dell'anarchico Errico Malatesta durante la manifestazione del 1° maggio 1920 a Savona. La premessa è una delle principali chiavi di lettura del quinto lungometraggio di Pietro Marcello, un film bellissimo, capace di unire poesia e politica, reinterpretando con molta libertà un classico della letteratura statunitense.
Del celebre romanzo di Jack London (1909), il regista casertano conserva le linee essenziali: Martin (Luca Marinelli) è un giovane marinaio che salva la vita di un ragazzo di buona famiglia; si innamora della sorella di quest'ultimo e per conquistarla fa di tutto per colmare l'enorme distanza culturale che li separa.
Quella distanza, però, soprattutto a causa delle pressioni della famiglia della ragazza, rimarrà insormontabile e Martin sarà accettato solo quando, dopo tante difficoltà, troverà il successo e la fama come scrittore, modificando la sua posizione sociale, ma a quel punto la sua crescita intellettuale e la consapevolezza acquisita gli impediranno di piegarsi ad una vita che non fa per lui... (trailer).
Tra le diverse modifiche apportate nell'adattamento, curato dallo stesso Pietro Marcello con la collaborazione di Maurizio Braucci, la più determinante è l'ambientazione, non più San Francisco, ma Napoli, non più l'Ottocento ma un tempo imprecisato, che va dagli anni Sessanta agli ottanta del Novecento, con brevi sortite anche nei decenni precedenti del secolo. La famiglia altoborghese Morse diventa l'aristocratica Orsini e la giovane Ruth è Elena (Jessica Cressy). 
Martin, dopo il suo processo di acculturamento, non è solo un socialista convinto del darwinismo sociale di Herbert Spencer e dell'individualismo nietzschiano, di cui era intriso lo stesso Jack London, ma addirittura un marinaio che diventa un proletario anarchico. Alla sua filosofia contribuisce in maniera determinante l'amicizia con il poeta Russ Brissenden (Carlo Cecchi), conosciuto dagli Orsini, ricco e decadente intellettuale nauseato dall'alta borghesia. Sarà proprio lui, inoltre, a diventare il miglior amico e mentore di Martin, nonché ad instillare in lui i dubbi su Elena e sui suoi sogni borghesi, che non prevedono una felicità lontana dallo schema sociale di una famiglia e dei figli. Fino alla fine, infatti, la ragazza mostrerà di non essere in grado di pensare con la propria testa, senza sottostare all'influenza della madre.
Pietro Marcello realizza un film di grande fascino, indubbiamente diverso da tutto ciò a cui lo spettatore è abituato. La narrazione, come detto, risulta rarefatta nel tempo e la sceneggiatura ondeggia tra riflessioni sui grandi temi della vita: amore, amicizia, lavoro, passioni, politica, società.
La rarefazione invade anche la vista, quando il regista inventa la soggettiva di un oggetto non senziente, a mia conoscenza un hapax legomenon cinematografico. Martin osserva un dipinto impressionista di una marina e da quello "viene guardato" in maniera sfocata: è proprio la tela, di fatto, a ricambiare lo sguardo del suo osservatore, che più si avvicina e più percepisce le pennellate e le macchie, come non manca di precisare, esclamando "è un quadro a trucco!"
L'immagine di Martin, peraltro, risulta rarefatta anche in una splendida inquadratura che lo vede iniziare a studiare a casa dell'amata sorella, in cui vive e dove il cognato lo considera un inutile nullafacente: il ragazzo appare dietro una tenda che fa da separè, ripreso in una perfetta prospettiva centrale che tanto ricorda quella del San Girolamo di Antonello da Messina, icona di studioso per eccellenza.
Martin scopre I fiori del Male di Baudelaire grazie a Elena; d'istinto capisce che l'istruzione può essere il modo di sconfiggere la povertà, teorizzandola con una bella metafora popolana in cui la prima è il pane e la seconda è il sugo che rimane alla fine di un succulento pianto di maccheroni.
Marcello prende a piene mani anche dalla nouvelle vague e lo dimostra nel trattamento dello scambio di lettere tra Martin e Elena, con le risposte di quest'ultima recitate ad inquadratura frontale e su uno sfondo monocromo alternato, rosso e blu, come avviene in diversi film di Godard e Truffaut (si pensi solo a Isabelle Adjani in Adèle H, che non a caso condivide con Martin Eden l'idea di amore impossibile tipica del romanzo ottocentesco).
Tra i momenti romantici, uno spazio di pura cinefilia è riservato al primo bacio di Martin ed Elena, che arriva dopo una passeggiata nell'antro della Sibilla, luogo in cui Rossellini aveva fatto passeggiare Ingrid Bergman nel 1954, nell'indimenticabile scena di Viaggio in Italia (vedi).
Gli attori sono davvero ben diretti e molto bravi. Luca Marinelli, vincitore della coppa Volpi a Venezia, interpreta almeno tre caratteri diversi: è un perfetto popolano, che a tratti sembra modellato sul primo Massimo Troisi, per poi trasformarsi in un uomo colto e impegnato, fino ad approdare alla sua tipologia preferita, quella dell'instabile, politicamente scorretto e sopra la righe. Inutile dire di Carlo Cecchi, icona teatrale italiana, che dà lustro alla figura di Russ.
E dal teatro arriva anche l'ottima Carmen Pommella, già vista nella serie tv Gomorra e che qui interpreta Maria, la donna di campagna, vedova e con due figli, nella cui casa Martin affitta una stanza dopo aver litigato con il cognato, e che ricompenserà per l'affetto e le premure una volta diventato ricco e famoso. Tra le perle di saggezza popolare di Maria, il suo "è bella ma nun abball' ", con cui sintetizza di aver intuito l'incompatibilità di Elena con Martin.
Ma sono tante altre le battute e le linee di sceneggiatura che colpiscono e sulle quali il merito va diviso tra il testo originario di Jack London e l'adattamento, spesso in versione napoletana.
Le prime critiche alla scrittura realistica e cruda di Martin arrivano dalla sorella, che gli dice " 'a gent adda rirer' ", e poi proprio da Elena, a cui però lui replica con sarcasmo usando un proverbio napoletano - 'O sàzio nun crére a 'o diùno - pronunciato in italiano: "il sazio che non crede al digiuno". 
"Con il suo spleen mi farà venire un infarto", dirà più avanti l'editore al Martin ormai sempre più umorale, che al risveglio, paragonato a Oblomov, risponde con un secco "lui nacque parassita", che la dice lunga sull'orgoglio del protagonista per il percorso fatto con tanto impegno. Martin, peraltro, rassicura lo stesso editore, preoccupato dal rispetto degli impegni presi dallo scrittore, con un ancora più diretto "i contratti sono l'unica letteratura che i capitalisti apprezzano", per poi aggiungere "ci andrò in America, ma solo per vanità e solo per mostrare il mio disprezzo", che evidenzia sempre più le analogie tra lui e Russ.
È sicuramente da ascrivere all'adattamento del film la sequenza di pura satira politica contemporanea, in cui un anonimo personaggio caratterizzato dalla barba e da uno spiccato accento milanese, ma con una felpa su cui è scritto 'NAPOLI', inneggia alla vittoria del popolo (non serve dire di chi si tratta, vero?).
Tra l'altro, va notato, nel film viene apportata una modifica al titolo della prima opera pubblicata a Martin, che gli vale le prime duecentomila lire: sulla rivista Eroica, infatti, compare L'apostata, in realtà un racconto di Jack London del 1906.

Un ruolo rilevante è occupato dalla musica, che alterna brani classici di Debussy, e non solo, a quelli pop, tra cui pezzi napoletani anni '70-'80 come Picceré di Daniele Pace o Voglia e turna' di Teresa De Sio, non a caso inserita per il ritorno di Martin a Napoli da Genova.
Anche qui la mano di Pietro Marcello è ben riconoscibile, soprattutto nella bellissima sequenza di volti del popolo che rimandano alla sua esperienza di documentarista (si veda qui La bocca del lupo, 2009) e amplificano i meriti della fotografica diretta da Alessandro Abate e Francesco Di Giacomo.
E così, il cineasta campano trova anche il modo di inserire un altro suo tema prediletto, quello delle maschere (Bella e perduta, 2015), con una belle sequenza di festa in abiti carnascialeschi cui partecipa lo stesso Martin in una villa con tanto di rudere in stile ottocentesco, mentre Tonino, uno dei figli di Maria datosi alla lettura, in una scena ha tra le mani una copia de Le avventure di Pinocchio.
Il finale è degno del bellissimo corto di Polanski Due uomini e un armadio (1958), con il protagonista, sempre più depresso e infelice, che rientra nuotando in mare: pur dichiarando di amare tutti gli elementi, in fondo è quello in cui si è sentito più a suo agio. Lì sulla spiaggia, invece, il contesto è mutato: Marcello dà spazio a una figura liminale come quella del nano, che ha il compito di annunciare lo scoppio della guerra e che viene deriso e colpito da un gruppo di fascisti che indossano il fez, ad inscenare un inaspettato salto cronologico che dà alla sequenza l'ennesimo tocco grottesco e di rarefazione temporale...
Il Martin Eden di Pietro Marcello non ha nulla a che vedere con gli adattamenti realizzati in passato - Bosworth 1914, Salkow 1942, lo sceneggiato RAI in cinque puntate di Giacomo Battiato del 1979 (vedi) - e la sua originalità lo rende un film da cui ci si lascia trasportare senza opporre resistenza, fantasticando come faceva Noodles leggendo proprio questo libro di Jack London nel bagno condominiale in C'era una volta in America... 

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