giovedì 12 settembre 2019

Charlie says (Harron 2018)

Sono passati cinquant'anni dal 9 agosto del 1969 e dagli omicidi nella villa di Cielo Drive 10050, che ormai non esiste più, e, com'è naturale che sia, proliferano film e serie tv più o meno incentrate su Charles Manson e l'eccidio più famoso di Hollywood.
Se, però, in C'era una volta a... Hollywood (Tarantino 2019), le vicende dei protagonisti toccano tangenzialmente i fatti e li stravolgono, e serie tv come Mindhunter, ideata da David Fincher, sfiora il personaggio Manson relativamente allo studio psico-sociale dei serial killer, e Aquarius, che dopo un buon inizio si lascia andare ad altri filoni narrativi, il film di Mary Harron è indubbiamente quello più fedele alla cronaca.
Non vanno poi dimenticati quelli più vicini a quegli anni, come Manson (Hendrickson - Merrick 1973), candidato all'Oscar come miglior documentario, e Helter Skelter (Gries 1976), miniserie tv candidata a tre Emmy, molto fedele all'omonimo e più completo libro su questa terribile storia, scritto dal procuratore Vincent Bugliosi nel 1974.
La pellicola della regista canadese (trailer), invece, prende le mosse dal libro di Ed Sanders, intitolato The Family, pubblicato nel 1971 e aggiornato due volte dall'autore (l'ultima nel 2002), che si sofferma soprattutto sulla vita all'interno dello Spahn Movie Ranch, dove appunto Charles Manson (Matt Smith) e i suoi accoliti vissero sul finire degli anni sessanta, ospiti dell'anziano proprietario George Spahn, che perlopiù lo affittava per l'industria cinematografica. Lì, ad esempio, come si dice nel film, furono girati film come Il cavaliere solitario o la fortunata serie tv Bonanza.

Il punto di vista scelto dalla Harron è tutto al femminile e analizza quanto accadde a partire dalle tre ragazze della "Famiglia" condannate dopo il processo, Sadie - Susan Atkins (Marianne Rendón), Katie - Patricia Krenwinkel (Sosie Bacon), e Lulù - Leslie Van Houten (Hannah Murray), attraverso un continuo alternarsi tra la loro vita in carcere nel 1972, e i filashback dei loro ricordi di pochi anni prima.
La cornice narrativa è costituita dalle lezioni di Karlene Faith (Merritt Wever), insegnante delle detenute nel carcere di Los Angeles, che non sembra capacitarsi del contrasto tra dolcezza e semplicità di Susan, Patricia e Leslie, e la capacità di compiere i delitti che ne hanno determinato l'ergastolo.
Tutto il resto illustra la quotidianità dello Spahn Ranch, che Charlie Manson trascorre con le "sue" ragazze, professando amore libero, ma a senso unico, sfruttandone le grazie per fare colpo sugli amici, come Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, o per imbonire possibili produttori musicali, come Terry Melcher, il figlio di Doris Day, ultimo inquilino della villa di Cielo Drive poi passata ai coniugi Polanski.
La sceneggiatura evidenzia il maschilismo di fondo della family mansoniana: gli uomini sono gli unici a toccare i soldi, sono i primi a dover essere serviti a tavola, e poco importa se Charlie si produce in una vera e propria lezione sul cunnilingus o adula ogni ragazza in modo da aumentarne l'autostima. Il controllo delle menti altrui, con tanto di infarinatura di teorie freudiane, passa anche da questo.
La tesi abbracciata dal film è quella della frustrazione per il mancato successo musicale, in colui che era convinto di diventare più famoso dei Beatles, come principale causa degli omicidi. E poi la teoria dell'Helter Skelter, frutto della follia, degli acidi e delle droghe di un uomo che arrivò a considerarsi un secondo Gesù, anche giocando sul suo nome (Man-son = figlio dell'uomo): l'identificazione dei quattro musicisti di Liverpool con dei profeti che attraverso il White Album avrebbero indicato il futuro, incarnando alcuni passi del nono capitolo dell'Apocalisse. Sarebbero stati proprio i Beatles i quattro angeli dai capelli di donna e con i petti di metallo (metafora delle loro chitarre); Manson il quinto, colui che avrebbe avuto le chiavi del pozzo dell'abisso; e il brano Revolution 9, presente nel doppio album, cosa sarebbe se non un riferimento a Revelation 9, appunto il capitolo in questione dell'Apocalisse?
Quelle chiavi e quel rifugio sotterraneo sarebbero servite alla Famiglia a sopravvivere all'Helter Skelter, alla rivolta della popolazione nera e alla conseguente guerra di razze che avrebbe decimato la popolazione mondiale. Sarebbe stato proprio Charlie, in seguito, a guidare gli afroamericani ribelli, secondo l'ennesima idea reazionaria della sua filosofia.
In quest'ottica, uccidere i ricchi bianchi, dando la colpa ai neri, non avrebbe rappresentato altro che l'abbrivio di quel processo.
Il resto è storia, la morte di Sharon Tate (incinta di Paul Richard, che non nascerà mai) e degli amici Jay Sebring, Wojciech Frykowski, Abigail Folger, nonché di un amico del guardiano della villa, Steven Parent, e la sera dopo, quella dei coniugi LaBianca. Charles Manson il mandante di quegli omicidi, o meglio l'istigatore degli stessi, con il solo fine di dare inizio al suo folle programma di redenzione dell'umanità.
La mdp segue gli assassini in quelle case, mostra Sharon Tate (Grace Van Dien) che implora dal basso i suoi carnefici, registra le urla di Rosemary LaBianca di fronte al marito incappucciato e strangolato col filo del telefono, ma allo stesso tempo immortala la furia omicida di questi ribelli davvero senza causa, in preda ad un puro delirio e alla loro eccessiva plagiabilità, assassini e vittime.
C'è spazio anche per una citazione pittorica. La sequenza in cui Charlie Manson "evangelizza" i suoi seguaci davanti al fuoco è evidentemente esemplata sulla pittura di Caravaggio, per i forti chiaroscuri e per la stessa composizione che ricorda da vicino la Vocazione di san Matteo della cappella Contarelli, con Manson in piedi e sulla destra, non a caso nel ruolo e nella posizione di Cristo.
Mary Harron, dopo aver raccontato le vicende della paranoica Valerie Solanas in Ho sparato a Andy Warhol (1996) e quelle dello yuppie Patrick Bateman, ideato dalla penna di Bret Easton Ellis, in American Psycho (2000), si confronta con uno dei grandi incubi vissuti dalla società statunitense nella seconda metà del XX secolo. Charlie says non è un capolavoro, ma svolge la sua funzione diegetica, ha dinamismo grazie al montaggio analettico, è arricchito da una buona colonna sonora (Andy Paley) e da un'ottima fotografia (Crille Forsberg), e soprattutto mette voglia di approfondire quanto accadde in quei mesi attorno a Hollywood...

Nessun commento:

Posta un commento