"La mafia non esiste, è un'invenzione giornalistica, Cosa Nostra si chiama". Sono alcune delle eloquenti parole pronunciate da Tommaso Buscetta nei lunghi colloqui con Giovanni Falcone, il giudice che ottiene la sua confessione e la sua collaborazione, grazie alle quali lo Stato arresterà 366 mafiosi fino a giungere al coinvolgimento della politica ai massimi livelli, con Giulio Andreotti in testa.
Marco Bellocchio colpisce alla bocca dello stomaco, e lo fa più volte con questo duro e bellissimo film sul primo e più famoso pentito di mafia (anche se non si riteneva tale), interpretato da uno straordinario Pierfrancesco Favino, probabilmente nel ruolo più rilevante e riuscito della sua carriera, che non si è aggiudicato il premio per la migliore interpretazione a Cannes solo per la contemporanea magnifica prova di Banderas in Dolor y gloria di Almodovar (trailer).
Di Buscetta seguiamo gli anni che vanno dal 1980, quando è poco più che cinquantenne, fino alla morte, sopraggiunta a New York nel 2000, all'età di 72 anni. Nel mezzo la guerra tra la mafia tradizionale, guidata da Stefano Bontate, e quella dei corleonesi, con a capo Salvatore Riina, una guerra da cui 'Masino' Buscetta esce profondamente sconfitto, con buona parte della sua famiglia uccisa dalla fazione rivale e con la fuga in Brasile insieme alla terza moglie, Cristina, e alcuni dei suoi otto figli. Proprio lì, "il boss dei due mondi" viene arrestato come trafficante di droga ed estradato in Italia, dove decide di collaborare con la giustizia italiana, iniziando il lungo scambio con Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi), che porterà ad un dossier di 487 pagine.
Bellocchio scandisce la narrazione attraverso momenti ideali, sempre segnalati dalle didascalie in sovrimpressione: il 4 settembre 1980 è il giorno di santa Rosalia, quando le due fazioni in cui si divide Cosa nostra a Palermo si accordano per una pace che durerà pochissimo; nel dicembre dello stesso anno Buscetta è in spiaggia in Sud America; non può mancare l'estate del 1982, con il protagonista che esulta davanti ad una sorprendente vittoria dell'Italia contro il Brasile ai mondiali di calcio (il tifo come momento antonomastico dell'esule, si pensi a Manfredi in Pane e cioccolata - Brusati 1973, vedi), poco prima di ricevere una telefonata che gli fa comprendere che la guerra palermitana lo ha raggiunto. In quegli anni sono centinaia i morti causati da questa faida, come non manca di sottolineare la regia con un contatore sullo schermo che scatta come un tassametro impazzito.
Oltre le morti di amici e familiari, però, molti sono anche i tradimenti di uomini che passano al soldo di Riina (Nicola Calì) per aver salva la vita, come nel caso di Pippo Calò (Fabrizio Ferracane). È per questo che Buscetta non si sentirà mai un traditore, anzi, la giustificazione al suo comportamento gli è data proprio da questa nuova mafia, capace di uccidere donne, bambini e giudici, senza alcun rispetto per le famiglie altrui, mettendo persino l'onore in secondo piano dopo il proprio interesse. "Io sono stato e resto un uomo d'onore [...] Sono loro che hanno tradito gli ideali di Cosa nostra", dice Masino al giudice del maxiprocesso, collaborare con lo Stato è la diretta conseguenza di un mondo ideale, sorta di assurda età dell'oro della mafia in cui sembra davvero credere, quella a suo dire nata per difendere la povera gente (ha persino una data, il 1957!), e che gli si è sgretolata davanti agli occhi.
Tra i momenti scelti da Bellocchio, molti rispecchiano le immagini di cronaca, a partire ovviamente dall'arrivo in Italia di Buscetta dopo l'arresto in Brasile e il tentativo di suicidio con la stricnina, dove quelle riprese vengono persino inserite nella narrazione. A Tommaso, non solo viene concesso di coprire "l'onta del disonore", con una coperta colorata a righe presente nel filmato mentre scende le scale dell'aereo (vedi), ma stando alla sceneggiatura non vengono nemmeno messe le manette. Bellocchio aggiunge dettagli umani alla storia lavorando di cesello.
In questo senso è notevole il flashback del suo primo incarico omicida all'interno di Cosa nostra, mostrato in maniera frammentata lungo il film e che risulta una sorta di allegoria di quel passato della mafia vagheggiato dal pentito, atteggiamento che Giovanni Falcone stigmatizza in maniera dura e netta. Tommaso, appena adolescente (qui lo interpreta Pietro Crozza) non può uccidere l'uomo segnalatogli, perché ha in braccio il figlio neonato al battesimo e quest'uomo per evitare di essere ucciso non si allontanerà mai dal figlio fino al giorno del matrimonio del ragazzo. Come in una fiaba o in un antico mito, appena il figlio andrà via, lo scudo morale e fisico di quell'uomo scomparirà permettendo a Buscetta di adempiere all'ordine ricevuto.
Tra i filmati evidentemente studiati per la realizzazione della pellicola, meritano un posto speciale il confronto tra Buscetta e Calò al maxiprocesso di Palermo del 1986, l'intervista rilasciata a Enzo Biagi nel 1988 e il mancato confronto in tribunale tra Buscetta e Riina. Il primo è uno dei momenti centrali dell'intero film e una delle massime prove di interpretazione di Pierfrancesco Favino: Buscetta chiede di entrare in aula prima che arrivino tutti, come uno sportivo fa col campo di gara per testarlo, vedendo la famosa gabbia antiproiettili chiesta per garantirgli l'incolumità, nonostante il luogo in cui è allestita non dovrebbe fornire dubbi a riguardo; lo scontro verbale tra i due, al cospetto del giudice, raggiunge vette inaspettate fino alle minacce; Favino ripete le battute in maniera perfetta e sentire il filmato di allora genera un certo straniamento per l'incredibile somiglianza (vedi).
Nel secondo, Buscetta è al buio dietro le veneziane chiuse che si vedono nell'intervista originale (vedi).
Nel terzo, Riina accusa di immoralità Buscetta per le troppe donne avute e portando a esempio membri della propria famiglia, in cui vedovi e vedove non hanno mai sposato altre persone (vedi). D'altronde, in altri frangenti Buscetta riconosce proprio in questo una delle nette differenza tra lui e Riina - "per lui è meglio comandare che fottere, per me è il contrario" - ma tutto appare decisamente pretestuoso, e il rifiuto al confronto da parte del boss corleonese porterà Buscetta a sfogarsi prima in aula, "mi aspettavo il ruggito del leone e ho ascoltato o squittio di un topo [...] non sono più io che parlo, adesso è una marea di gente che parla, la mafia è finita", e poi, in un'ennesima aggiunta del film, lontano dalle telecamere e dai microfoni.
Ovviamente c'è spazio anche per il discorso di Borsellino al funerale del collega Falcone e per quello, divenuto ancora più celebre come appello ai mafiosi, della vedova dell'agente Vito Schifani Rosaria Costa (vedi), che il regista inserisce a mo' di tortura in loop nei televisori delle celle di Calò e Riina all'Asinara.
Tra le aggiunte più evidenti di Bellocchio ci sono naturalmente anche le parti oniriche: Buscetta vede i figli uccisi sanguinanti sull'aereo che lo porta dal Brasile in Italia, ma soprattutto, nel letto della cella, ha la visione delle donne che lo piangono mentre la cassa della bara viene chiusa con la fiamma ossidrica. Come capita spesso nei sogni, quel rumore è realmente esistente, ma al risveglio si rivela essere quello degli operai che stanno fissando le grate alle finestre.
Allo stesso modo, anche una citazione dal romanziere Michel Butor rientra tra i tocchi personali del regista e degli sceneggiatori, tanto più che "lo sguardo è espressione della realtà”, ripresa dal teorico francese del nouveau roman, è messa in bocca al boss Luciano Liggio.
E poi l'amicizia tra Tommaso e Salvatore Contorno, detto 'Totuccio' (Antonio Lo Cascio), che segue l'esempio di Masino e che, con un temperamento molto più istintivo, si scontra con i detenuti in aula al maxiprocesso, dove parla esclusivamente in dialetto e dove il suo personaggio, spesso divertente e usato per abbassare la tensione, fa da contraltare al crudo realismo di chi dietro le sbarre si cuce le labbra, passando dalla metafora ai fatti, come Salvatore Ercolano, o si denuda e dà in escandescenze per ottenere l'infermità, mentre un giudice commenta con "teatro patologico", ancora una volta una deroga alla filologia in favore della colta rivisitazione di Bellocchio, che cita l'attività dell'artista d'avanguardia Dario D’Ambrosi.
Le sequenze che vedono insieme Buscetta e Contorno sono per leggerezza degne di una commedia, tra l'evocazione del carcere degli anni '70 - nostalgici anche di questo oltre che della mafia precedente alla droga -, in cui i privilegi per i boss erano molteplici, e l'incontro negli Stati Uniti, entrambi sotto protezione, con Salvatore che gestisce un concessionario riuscendo a vendere automobili senza parlare una parola d'inglese e portando la pistola come John Wayne e Gary Cooper...
Tante le influenze, dall'immaginario rinascimentale, con Buscetta che in ospedale viene ripreso con un'inquadratura scorciata dai piedi che non può non evocare il Cristo morto di Andrea Mantegna, al cinema del passato, basti confrontare ad esempio il figlio tossicodipendente di Tommaso, Benedetto, con il De Niro de Il clan dei Barker (Corman 1970), fino alle serie tv di ultima generazione, come l'intera sequenza dell'arresto in Brasile arricchita di musica sudamericana, che sembra riproporre schemi noti a un titolo di successo come Narcos, incentrato proprio sui trafficanti di droga.
Bellocchio scandisce la narrazione attraverso momenti ideali, sempre segnalati dalle didascalie in sovrimpressione: il 4 settembre 1980 è il giorno di santa Rosalia, quando le due fazioni in cui si divide Cosa nostra a Palermo si accordano per una pace che durerà pochissimo; nel dicembre dello stesso anno Buscetta è in spiaggia in Sud America; non può mancare l'estate del 1982, con il protagonista che esulta davanti ad una sorprendente vittoria dell'Italia contro il Brasile ai mondiali di calcio (il tifo come momento antonomastico dell'esule, si pensi a Manfredi in Pane e cioccolata - Brusati 1973, vedi), poco prima di ricevere una telefonata che gli fa comprendere che la guerra palermitana lo ha raggiunto. In quegli anni sono centinaia i morti causati da questa faida, come non manca di sottolineare la regia con un contatore sullo schermo che scatta come un tassametro impazzito.
Oltre le morti di amici e familiari, però, molti sono anche i tradimenti di uomini che passano al soldo di Riina (Nicola Calì) per aver salva la vita, come nel caso di Pippo Calò (Fabrizio Ferracane). È per questo che Buscetta non si sentirà mai un traditore, anzi, la giustificazione al suo comportamento gli è data proprio da questa nuova mafia, capace di uccidere donne, bambini e giudici, senza alcun rispetto per le famiglie altrui, mettendo persino l'onore in secondo piano dopo il proprio interesse. "Io sono stato e resto un uomo d'onore [...] Sono loro che hanno tradito gli ideali di Cosa nostra", dice Masino al giudice del maxiprocesso, collaborare con lo Stato è la diretta conseguenza di un mondo ideale, sorta di assurda età dell'oro della mafia in cui sembra davvero credere, quella a suo dire nata per difendere la povera gente (ha persino una data, il 1957!), e che gli si è sgretolata davanti agli occhi.
L'arrivo a Fiumicino del vero Buscetta |
In questo senso è notevole il flashback del suo primo incarico omicida all'interno di Cosa nostra, mostrato in maniera frammentata lungo il film e che risulta una sorta di allegoria di quel passato della mafia vagheggiato dal pentito, atteggiamento che Giovanni Falcone stigmatizza in maniera dura e netta. Tommaso, appena adolescente (qui lo interpreta Pietro Crozza) non può uccidere l'uomo segnalatogli, perché ha in braccio il figlio neonato al battesimo e quest'uomo per evitare di essere ucciso non si allontanerà mai dal figlio fino al giorno del matrimonio del ragazzo. Come in una fiaba o in un antico mito, appena il figlio andrà via, lo scudo morale e fisico di quell'uomo scomparirà permettendo a Buscetta di adempiere all'ordine ricevuto.
Tra i filmati evidentemente studiati per la realizzazione della pellicola, meritano un posto speciale il confronto tra Buscetta e Calò al maxiprocesso di Palermo del 1986, l'intervista rilasciata a Enzo Biagi nel 1988 e il mancato confronto in tribunale tra Buscetta e Riina. Il primo è uno dei momenti centrali dell'intero film e una delle massime prove di interpretazione di Pierfrancesco Favino: Buscetta chiede di entrare in aula prima che arrivino tutti, come uno sportivo fa col campo di gara per testarlo, vedendo la famosa gabbia antiproiettili chiesta per garantirgli l'incolumità, nonostante il luogo in cui è allestita non dovrebbe fornire dubbi a riguardo; lo scontro verbale tra i due, al cospetto del giudice, raggiunge vette inaspettate fino alle minacce; Favino ripete le battute in maniera perfetta e sentire il filmato di allora genera un certo straniamento per l'incredibile somiglianza (vedi).
Nel secondo, Buscetta è al buio dietro le veneziane chiuse che si vedono nell'intervista originale (vedi).
Nel terzo, Riina accusa di immoralità Buscetta per le troppe donne avute e portando a esempio membri della propria famiglia, in cui vedovi e vedove non hanno mai sposato altre persone (vedi). D'altronde, in altri frangenti Buscetta riconosce proprio in questo una delle nette differenza tra lui e Riina - "per lui è meglio comandare che fottere, per me è il contrario" - ma tutto appare decisamente pretestuoso, e il rifiuto al confronto da parte del boss corleonese porterà Buscetta a sfogarsi prima in aula, "mi aspettavo il ruggito del leone e ho ascoltato o squittio di un topo [...] non sono più io che parlo, adesso è una marea di gente che parla, la mafia è finita", e poi, in un'ennesima aggiunta del film, lontano dalle telecamere e dai microfoni.
Ovviamente c'è spazio anche per il discorso di Borsellino al funerale del collega Falcone e per quello, divenuto ancora più celebre come appello ai mafiosi, della vedova dell'agente Vito Schifani Rosaria Costa (vedi), che il regista inserisce a mo' di tortura in loop nei televisori delle celle di Calò e Riina all'Asinara.
Tra le aggiunte più evidenti di Bellocchio ci sono naturalmente anche le parti oniriche: Buscetta vede i figli uccisi sanguinanti sull'aereo che lo porta dal Brasile in Italia, ma soprattutto, nel letto della cella, ha la visione delle donne che lo piangono mentre la cassa della bara viene chiusa con la fiamma ossidrica. Come capita spesso nei sogni, quel rumore è realmente esistente, ma al risveglio si rivela essere quello degli operai che stanno fissando le grate alle finestre.
Allo stesso modo, anche una citazione dal romanziere Michel Butor rientra tra i tocchi personali del regista e degli sceneggiatori, tanto più che "lo sguardo è espressione della realtà”, ripresa dal teorico francese del nouveau roman, è messa in bocca al boss Luciano Liggio.
E poi l'amicizia tra Tommaso e Salvatore Contorno, detto 'Totuccio' (Antonio Lo Cascio), che segue l'esempio di Masino e che, con un temperamento molto più istintivo, si scontra con i detenuti in aula al maxiprocesso, dove parla esclusivamente in dialetto e dove il suo personaggio, spesso divertente e usato per abbassare la tensione, fa da contraltare al crudo realismo di chi dietro le sbarre si cuce le labbra, passando dalla metafora ai fatti, come Salvatore Ercolano, o si denuda e dà in escandescenze per ottenere l'infermità, mentre un giudice commenta con "teatro patologico", ancora una volta una deroga alla filologia in favore della colta rivisitazione di Bellocchio, che cita l'attività dell'artista d'avanguardia Dario D’Ambrosi.
Le sequenze che vedono insieme Buscetta e Contorno sono per leggerezza degne di una commedia, tra l'evocazione del carcere degli anni '70 - nostalgici anche di questo oltre che della mafia precedente alla droga -, in cui i privilegi per i boss erano molteplici, e l'incontro negli Stati Uniti, entrambi sotto protezione, con Salvatore che gestisce un concessionario riuscendo a vendere automobili senza parlare una parola d'inglese e portando la pistola come John Wayne e Gary Cooper...
Tante le influenze, dall'immaginario rinascimentale, con Buscetta che in ospedale viene ripreso con un'inquadratura scorciata dai piedi che non può non evocare il Cristo morto di Andrea Mantegna, al cinema del passato, basti confrontare ad esempio il figlio tossicodipendente di Tommaso, Benedetto, con il De Niro de Il clan dei Barker (Corman 1970), fino alle serie tv di ultima generazione, come l'intera sequenza dell'arresto in Brasile arricchita di musica sudamericana, che sembra riproporre schemi noti a un titolo di successo come Narcos, incentrato proprio sui trafficanti di droga.
Bellocchio si lascia andare anche a metafore visive attraverso un montaggio alternato che unisce Buscetta ad una tigre bianca, esemplare eccezionale per antonomasia, e Totò Riina ad una iena. Una similitudine reale, però, è anche superiore a queste: quella pronunciata da Contorno durante il processo, in cui paragona ancora Riina ad un pessimo pastore: le pecore lo seguono fino ad un burrone, a lui basta scansarsi per vederle cadere una a una nel dirupo.
Tra i momenti indimenticabili della pellicola rientrano anche quello della sentenza pronunciata a Palermo nel 1987, che Bellocchio correda delle note di Va' pensiero, ma soprattutto l'esplosione dell'auto di Giovanni Falcone in quel maledetto 23 maggio 1992 a Capaci. Il regista emiliano la gira con la mdp all'interno dell'abitacolo, invitando idealmente lo spettatore a vivere in prima persona quell'atroce episodio, che ha segnato una delle più cocenti sconfitte dello Stato contro la mafia; sul grande schermo l'effetto è clamoroso e davvero mostruoso, e aumenta vedendo le reazioni festanti degli uomini di Cosa nostra, contrapposti ai lenzuoli bianchi sui balconi della Palermo sana.
Tra i momenti indimenticabili della pellicola rientrano anche quello della sentenza pronunciata a Palermo nel 1987, che Bellocchio correda delle note di Va' pensiero, ma soprattutto l'esplosione dell'auto di Giovanni Falcone in quel maledetto 23 maggio 1992 a Capaci. Il regista emiliano la gira con la mdp all'interno dell'abitacolo, invitando idealmente lo spettatore a vivere in prima persona quell'atroce episodio, che ha segnato una delle più cocenti sconfitte dello Stato contro la mafia; sul grande schermo l'effetto è clamoroso e davvero mostruoso, e aumenta vedendo le reazioni festanti degli uomini di Cosa nostra, contrapposti ai lenzuoli bianchi sui balconi della Palermo sana.
Il traditore è un film sulla fascinazione del male, sul potere del cinema. Difficile vederlo senza avvertire la necessità di approfondire quanto accaduto in quegli anni e tentare di comprendere perché un personaggio del genere possa generare una naturale simpatia, nonostante la consapevolezza di chi sia stato prima di cambiare rotta.
Non si tratta di un eroe, come ha precisato Marco Bellocchio, ma di un uomo che, messo con le spalle al muro, dopo l'estradizione, ha deciso di fare la cosa giusta, tentando di cambiare la storia della mafia. Un malvivente elegante, più colto di molti altri, amante della bella vita e delle donne, in fondo fedele e coerente almeno con se stesso... un traditore tradito dal presente, che ha grande rispetto e stima per Giovanni Falcone, perché per fortuna a volte anche il bene ha il suo fascino.
Non si tratta di un eroe, come ha precisato Marco Bellocchio, ma di un uomo che, messo con le spalle al muro, dopo l'estradizione, ha deciso di fare la cosa giusta, tentando di cambiare la storia della mafia. Un malvivente elegante, più colto di molti altri, amante della bella vita e delle donne, in fondo fedele e coerente almeno con se stesso... un traditore tradito dal presente, che ha grande rispetto e stima per Giovanni Falcone, perché per fortuna a volte anche il bene ha il suo fascino.
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