Sebastián Lelio, vincitore dell'Oscar per il miglior film in lingua straniera con Una donna fantastica (2017), realizza nello stesso anno anche Disobedience, pellicola tratta dall'omonimo romanzo di Naomi Alderman (2006), che racconta l'incapacità di accettare le differenze in ambienti dominati da una mentalità fortemente tradizionalista, caratterizzati da convinzioni e regole religiose, sull'altare delle quali vengono sacrificate sistematicamente le vite delle persone.
In Sinagoga, il rabbino Rav Krushka commenta come HaShem (uno dei tanti modi dell'ebraismo di chiamare Dio, in questo caso "il Nome") abbia creato gli angeli, gli uomini e le bestie, focalizzando la sua predica sul libero arbitrio concesso solo all'uomo e per questo l'unico a poter disobbedire (trailer).
Quel rabbino, che muore durante l'omelia, è il padre della protagonista, Ronit (Rachel Weisz), affermata fotografa negli Stati Uniti, che torna inaspettatamente per la triste occasione a Londra, dove rivede parenti e amici da cui ormai è molto distante e non solo geograficamente, ma soprattutto incontra Esti (Rachel McAdams), con cui prima di partire aveva avuto una relazione. Rivedersi scatenerà la passione sopita dopo la partenza di Ronit, nonostante Esti sia ora sposata con quello che era il miglior amico di entrambe, Dovid (Alessandro Nivola), a cui peraltro viene affidato il ruolo di rabbino che era stato di Rav.
Le due Rachel, Weisz e McAdams, hanno il compito più difficile: il film è incentrato sulla loro interpretazione di due ruoli molto diversi, opposti e complementari. Ronit ha perso la madre anni prima, è andata via dal contesto d'origine, riuscendo verosimilmente a vivere la sua sessualità con più libertà (anche se all'inizio la vediamo fare sesso con un uomo senza alcun trasporto), non riesce a non polemizzare con i parenti ortodossi persino durante lo Shabbat; Esti è rimasta lì ed è diventata la donna che tutti attorno a lei volevano diventasse: si è sposata, insegna a scuola, fa sesso tutti i venerdì con suo marito per dovere, diventerà presto mamma. Ritrovare Ronit fa saltare la sovrastruttura creata da Esti, combattuta tra il vivere "con decoro", secondo quello che questa espressione vuol dire in una realtà in cui il singolo non ha come obiettivo la propria felicità, bensì il mantenimento dell'ordine sociale prestabilito.
Gli occhi degli altri si fanno subito curiosi, probabilmente già anni prima qualche pettegolezzo si era diffuso nella comunità, quando persino Rav, il padre di Ronit, le aveva scoperte reagendo come un rabbino che scopre due lesbiche... chiamando in causa l'occhio di Dio.
La regia non ha picchi, né incide particolarmente sulla storia. Il film è molto chiuso sui due personaggi femminili e sulla cupezza dell'ambiente che le circonda, in una sorta di claustrofobia ambientale che non prevede personaggi esterni alla comunità ebraica cui appartengono le due donne e che, in fondo, non solo le ha formate, ma le governa tuttora seppur in maniera e a livelli differenti.
Solo Dovid ha uno sviluppo maggiore di una semplice comparsa: è lui, infatti, ad essere stato testimone della relazione di Ronit e Esti quando erano grandi amici da ragazzi, in una sorta di Jules et Jim a elementi invertiti; è lui a dire alla moglie di essere ora la sua sicurezza, mentre Ronit è l'inaffidabilità, "lei se ne tornerà dalle sue amiche e dai suoi uomini"; ed è ancora lui che in lacrime le urla "che problema hai?", rinfacciandole la sua natura, ma essendo in fondo consapevole di averla costretta alla cattività sentimentale per tanto tempo, privandola di quel libero arbitrio di cui si parlava in sinagoga all'inizio del film e con cui la storia, in perfetta forma circolare, si chiude.
A dispetto del soggetto, il film in realtà è molto convenzionale, e a confermarlo sono alcune azioni e alcuni scambi di battute tra le due protagoniste: rincorse d'auto e partenze annullate, consueti topos di tanti film romantici ordinari, si sovrappongono a Esti che accusa Ronit con "è più facile andarsene!", mentre l'altra le risponde "no, affatto", che più avanti diventa un ancor più banale "sarai una bravissima mamma. Ti amo".
Bello, infine, l'intermezzo musicale sulle cui note avviene il riavvicinamento di Ronit ed Esti, con la prima che accende una radio da cui si sente Love song dei Cure, che non solo restituisce la componente britannica all'ambientazione, ma si adatta perfettamente anche con il testo alla vicenda narrata, quasi fossero le parole stesse della donna ("You make me feel like I am home again / Whenever I'm alone with you").
Siamo lontani dal capolavoro con cui qualunque cinefilo non può non confrontare il film di Lelio. William Wyler con Quelle due (1961), infatti, oltre cinquant'anni fa sconvolgeva gli spettatori di mezzo mondo mettendo sullo schermo la pièce teatrale di Lillian Hellman (tit. or. The Children's Hour), e alludendo per quanto possibile allora alla relazione omosessuale di due insegnanti interpretate da Audrey Hepburn e Shirley McLaine. Lelio non raggiunge le vette del dramma psicologico di Wyler e, anche se può esplicitare il lato passionale per troppo tempo represso da Ronit e Esti, lo fa in una scena che al di là di qualche audacia si limita ad un "vorrei ma non posso" che non permette al film si oltrepassare il crinale del conformismo... e pensare che pochi anni fa Abdellatif Kechiche in La vita d'Adele (2013) investiva lo spettatore con immagini più dirette, frontali e dirompenti.
Gli occhi degli altri si fanno subito curiosi, probabilmente già anni prima qualche pettegolezzo si era diffuso nella comunità, quando persino Rav, il padre di Ronit, le aveva scoperte reagendo come un rabbino che scopre due lesbiche... chiamando in causa l'occhio di Dio.
La regia non ha picchi, né incide particolarmente sulla storia. Il film è molto chiuso sui due personaggi femminili e sulla cupezza dell'ambiente che le circonda, in una sorta di claustrofobia ambientale che non prevede personaggi esterni alla comunità ebraica cui appartengono le due donne e che, in fondo, non solo le ha formate, ma le governa tuttora seppur in maniera e a livelli differenti.
Solo Dovid ha uno sviluppo maggiore di una semplice comparsa: è lui, infatti, ad essere stato testimone della relazione di Ronit e Esti quando erano grandi amici da ragazzi, in una sorta di Jules et Jim a elementi invertiti; è lui a dire alla moglie di essere ora la sua sicurezza, mentre Ronit è l'inaffidabilità, "lei se ne tornerà dalle sue amiche e dai suoi uomini"; ed è ancora lui che in lacrime le urla "che problema hai?", rinfacciandole la sua natura, ma essendo in fondo consapevole di averla costretta alla cattività sentimentale per tanto tempo, privandola di quel libero arbitrio di cui si parlava in sinagoga all'inizio del film e con cui la storia, in perfetta forma circolare, si chiude.
Bello, infine, l'intermezzo musicale sulle cui note avviene il riavvicinamento di Ronit ed Esti, con la prima che accende una radio da cui si sente Love song dei Cure, che non solo restituisce la componente britannica all'ambientazione, ma si adatta perfettamente anche con il testo alla vicenda narrata, quasi fossero le parole stesse della donna ("You make me feel like I am home again / Whenever I'm alone with you").
Siamo lontani dal capolavoro con cui qualunque cinefilo non può non confrontare il film di Lelio. William Wyler con Quelle due (1961), infatti, oltre cinquant'anni fa sconvolgeva gli spettatori di mezzo mondo mettendo sullo schermo la pièce teatrale di Lillian Hellman (tit. or. The Children's Hour), e alludendo per quanto possibile allora alla relazione omosessuale di due insegnanti interpretate da Audrey Hepburn e Shirley McLaine. Lelio non raggiunge le vette del dramma psicologico di Wyler e, anche se può esplicitare il lato passionale per troppo tempo represso da Ronit e Esti, lo fa in una scena che al di là di qualche audacia si limita ad un "vorrei ma non posso" che non permette al film si oltrepassare il crinale del conformismo... e pensare che pochi anni fa Abdellatif Kechiche in La vita d'Adele (2013) investiva lo spettatore con immagini più dirette, frontali e dirompenti.
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