Con queste parole di Bertold Brecht si apre il bel film di Stephane Brizé, e sono quelle che risuonano nella testa dello spettatore fino alla commovente fine di una storia durissima, fatta di scontro con il potere e di difesa della dignità personale.
L'azienda di apparecchiature automobilistiche Perrin ha deciso di chiudere lo stabilimento di Augen, licenziando oltre mille persone, nonostante questi, solo due anni prima, abbiano accettato un patto che in cambio della garanzia del posto di lavoro per i successivi cinque anni, prevedeva forti rinunce economiche che hanno permesso ai dirigenti di risparmiare ben quattordici milioni di euro (trailer).
A guidare la protesta c'è un gruppo di sindacalisti, tra cui Laurent Amedeo (Vincent Lindon), leader della CGT che lotta per salvare i posti di lavoro ed impedire la chiusura della fabbrica, e non ha nessuna intenzione di limitarsi ad ottenere la migliore buonuscita possibile per tutti. Ai suoi occhi e a quelli degli esperti contattati, infatti, la chiusura non è dettata da una crisi, anzi, la fabbrica ha appena prodotto 17 milioni di utili per gli azionisti. L'annuncio, quindi, sembra essere solo l'inizio di un processo che porterà l'azienda in Romania - la tanto decantata delocalizzazione - dove, risparmiando sulla forza lavoro, potrà garantire un incremento degli utili.
Dopo oltre due mesi di sciopero le posizioni degli attivisti non sono più saldamente univoche e se Laurent e Mélanie continuano imperterriti verso l'obiettivo massimo, altre guide sindacali, come Olivier e Cedric, sono pronte a trattare con i capi per scendere a compromessi.
Le divisioni tra i manifestanti vengono cavalcate da chi non aspettava di meglio per riuscire ad imporsi e a riavviare la produzione. Eppure Laurent e compagni non si arrenderanno e otterranno un confronto con il signor Hauser, l'amministratore delegato della Dimke, la società tedesca che controlla la Perrin dalla Germania.
Dopo La legge del mercato (2015), Brizé torna a narrare le difficoltà del mondo del lavoro odierno, in cui i diritti dei dipendenti sono troppo spesso messi in secondo piano da datori di lavoro e dirigenti privi di scrupoli che considerano lavoratori solo dei mezzi per ottenere i propri obiettivi.
Il titolo In guerra è esattamente quello che si vede sul grande schermo. Strategie, trattative, sfruttamento di un'incrinatura nella fazione opposta per farne una breccia attraverso cui far leva per la vittoria finale; e soprattutto l'assedio alla roccaforte-fabbrica presidiata dai lavoratori, costretti a cedere alle forze dell'ordine che li costringono a far entrare i crumiri.
Vincent Lindon, oltre ad essere il magnifico protagonista della pellicola, ne è anche coproduttore, ma è di fatto l'unico attore professionista. Brizé, infatti, lo affianca ad una serie di esordienti che recitano col proprio nome reale e, perlopiù, in ruoli simili a quelli che svolgono quotidianamente. Solo per fare qualche esempio, Mélanie Rover e Olivier Lemaire sono dei veri sindacalisti, anche se il secondo, rappresentante della CGT, nel film è del SIPI; Jacques Borderie, nel film il direttore della Perrin, è consigliere dipartimentale del cantone di Livradais; Jean Grosset, che media tra i manifestanti e l'Eliseo, è in realtà un membro del partito socialista francese la cui attività si è principalmente incentrata su tematiche economiche e di dialogo sociale.
La sceneggiatura, di grande impatto, è indubbiamente l'elemento che emerge con più forza.
I sindacalisti ai tavoli negoziali si esprimono senza esclusione di colpi: Laurent incalza, «O mantenete la promessa fatta e noi torniamo a lavorare oppure non mantenete la promessa, nonostante l’accordo firmato, e noi continuiamo a bloccare la produzione e la merce»; Melanie, prorompe contro Borderie che si meraviglia di come i dipendenti possano contrastare l'azienda dall'interno della stessa barca, dicendogli a muso duro "se siamo sulla stessa barca, noi siamo nelle cuccette in basso", perfetta sintesi della distanza sociale e dell'inevitabile lotta di classe che fa da sfondo all'intera vicenda.
Il realismo dei meccanismi psicologici che caratterizzano le battaglie sindacali è puntuale. Non solo la già evidenziata spaccatura tra le diverse filosofie dei lavoratori, ma anche l'isolamento del leader nei momenti di difficoltà, quando diventa l'unico colpevole dei fallimenti del gruppo e il capro espiatorio di chi, troppo debole per imporsi inizialmente, può prendersi una rivincita sulla sua visibilità tacciandolo di protagonismo fine a se stesso e di idealismo controproducente. Vendette, egocentrismi, personalità a confronto, persino offese sessiste, clamorose gaffe all'interno di gruppi che dovrebbero garantire la totale uguaglianza tra i suoi membri.
Dall'altra parte, invece, il consueto divide et impera che gli consente di indebolire i manifestanti; il costante rinvio del problema, in modo da sfinirli o, peggio, portarli al tracollo, quando una reazione violenta può farli passare improvvisamente da vittime a colpevoli senza appello e per questo degni di licenziamento immediato.
La mdp è spietatamente realistica, non si arrischia in movimenti che in un film del genere risulterebbero superflui, ma riprende i volti e i gesti dei personaggi in modo da far sentire lo spettatore all'interno della mischia. Di Laurent vediamo persino una lacrima ben nascosta, scovata da una camera che si avvicina così tanto da mostrarci ogni singola ruga del suo viso.
E poi la musica elettronica di Bertrand Blessing, che irrompe nel film in maniera progressiva e con toni ritmati di percussioni che fanno pensare ai passi della folla, alle barricate, alla deflagrazione.
In guerra è una pellicola splendidamente politica ed esemplare, nel senso etimologico del termine, un exemplum che permette profonde riflessioni: solo per questo meriterebbe di essere proiettato nelle scuole, ammesso che si vogliano dei futuri cittadini consapevoli del proprio ruolo sociale e della propria dignità, un valore che bisognerebbe insegnare a non barattare.
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