venerdì 5 gennaio 2018

Suburbicon (Clooney 2017)

Gli anni '50, perfetti e senza macchia, abitati da perbenisti e benpensanti, razzisti e sempre sorridenti...
Gli anni '50 che il cinema statunitense ci ha fatto conoscere dai tempi di Douglas Sirk ed Elia Kazan e che qualche lustro fa Todd Haynes recuperò nel bellissimo Lontano dal paradiso (2002).
Proprio con quel film Suburbicon - sceneggiatura del 1999 dei fratelli Coen oggi affidata a George Clooney - ha in comune l'eccezionale protagonista: allora probabilmente la migliore attrice in circolazione, ma ancora oggi tra le più grandi di Hollywood... Julianne Moore, come quindici anni fa, interpreta una donna socialmente impeccabile, ma con tanti scheletri nell'armadio. Questa volta, poi, si sdoppia, e impersona sia Rose, coinvolta in un incidente e per questo ridotta su una sedia a rotelle, e sua sorella gemella, Margareth. A completare il quadretto, il marito di Rose, Gardner (Matt Damon), e loro figlio, Nicholas, un bambino di dieci anni (trailer).

La famiglia Lodge, d'origine irlandese e di credo episcopale (non un dettaglio), vive nel ghetto più asettico che gli anni '50 possano concepire: Suburbicon, appunto, cittadina sorta nel 1947, subito dopo una guerra che ha spinto a vagheggiare una società imperturbabile all'interno di una struttura urbana tanto perfetta quanto irreale, in cui esistono solo villette a schiera con giardino, divise da strade ortogonali, in una continua e infinita monotonia.
In questa apparente perfezione sociale, intervengono due elementi di disturbo: due malviventi entrano in casa e uccidono Rose; nella villetta vicina si trasferiscono i Meyers, una famiglia di afroamericani la cui sola presenza destabilizza l'intera comunità di Suburbicon, che si concentrerà su di loro, senza far alcuna attenzione su ciò che è accaduto, accade e accadrà nella casa di fianco...
La metafora è facile, diretta, forse anche troppo didascalica, ma funziona e va dritta al punto: dubitare di chi è diverso solo per una caratteristica fisica è sintomo di profonda ignoranza, mentre spesso il pericolo arriva da chi non mostra mai un'imperfezione, da chi sorride anche dopo una grave perdita, da chi fa finta di niente davanti a qualsiasi stravolgimento che la vita gli impone.
Julianne Moore e Matt Damon si muovono benissimo nei rispettivi ruoli, e le loro espressioni serene - la Moore è fantastica con i suoi sorrisi tesi e di facciata - contrastano sistematicamente con la situazione reale.
Il primo a dubitare della condotta di Margareth e Gardner è il fratello delle due gemelle, Mitch, un uomo buono, rude e corpulento (chissà se i Coen lo avevano scritto per John Goodman...) che dopo la morte di Rose capisce che quella casa è ora "senza cuore", ma presto lo faranno anche il piccolo Nicky e, soprattutto, il liquidatore dell'assicurazione, Cooper (Oscar Isaac), anche lui impeccabile ma solo ad un primo sguardo.
La scenografia di James D. Bissel, già collaboratore di Clooney per Good Night and Good Luck (2005), per cui venne anche candidato all'Oscar, e i costumi di Jenny Eagan contribuiscono in maniera determinante alla riuscita del film, che ha come fulcro la formalità dell'epoca storica in contrasto con la vicenda narrata. Allo stesso modo, funziona la musica di Alexandre Desplat (otto nomination agli Oscar, con uno vinto per Grand Budapest Hotel - Anderson 2014), idilliaca e rassicurante come lo sono all'apparenza le vie di Suburbicon, dove Nicky e il figlio dei Meyers giocano a baseball nel bel dolly finale...
Molti i dettagli divertenti, simbolici e significanti, secondo la tipica logica coeniana. Lo stress accumulato dai due protagonisti è evidente nel modo di sfogarlo di Gardner che in ufficio non fa che stringere delle pinze da allenamento; Margareth, mentre si parla di integrazione razziale in riferimento ai Meyers, usa la candeggina; Gardner ha un acquario nel suo studio all'interno del quale un palombaro apre e chiude continuamente lo scrigno di un tesoro sommerso; Gardner con la camicia insanguinata, e pedalando su una bicicletta da bambino, risponde con la surreale nonchalance di chi sta facendo la cosa più naturale del mondo; e, infine, sempre il personaggio di Matt Damon parla con suo figlio mangiando un sandwich e bevendo un bicchiere di latte che attira la nostra attenzione quanto quello hitchcokiano de Il sospetto (1941).
Anche altri particolari devono molto al "maestro del brivido". Quando Rose viene uccisa vediamo solo la sua ombra proiettata sul muro, estrema conseguenza di quello che accadeva con Grace Kelly ne Il delitto perfetto (1954), e sull'ombra e il cinema si potrebbero scrivere pagine e pagine partendo dall'espressionismo tedesco a M - il mostro di Dusseldorf (Lang 1931), dai film di Jacques Torneur, fino, ovviamente, alle ombre cinesi di C'era una volta in America (Leone 1984). E poi Margareth e Gardner utilizzano strumenti domestici come il mattarello o i ferri del caminetto, come sir Alfred spiega dettagliatamente a Truffaut nel celebre libro-intervista parlando del forno de Il sipario strappato (1966), affermando come sia il contesto a determinare gli oggetti ("conformemente al nostro vecchio principio, l'assassinio deve essere eseguito con i mezzi che ci vengono suggeriti dal posto e dai personaggi").
Margareth e Gardner Lodge / Peggy ed Ed Blumquist
Impossibile infine non notarlo... ma Margareth e Gardner, con il loro sgangherato progetto delinquenziale, sono davvero simili a Peggy e Ed Blumquist (Kirsten Dunst e Jess Plemons) della seconda stagione di Fargo. Solo un caso che i fratelli di St. Louis Park aleggino su entrambi i lavori? 

Suburbicon sicuramente non ha la forza di un film dei Coen, ma George Clooney pur non avendo le qualità registiche e autoriali dei suoi maestri, ha il merito di aver messo in scena un film che altrimenti non avremmo mai visto e che tutto sommato non snatura.

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