martedì 12 settembre 2017

Miss Sloane - Giochi di potere (Madden 2016)

Miss Sloane è un tipico prodotto perfettamente confezionato dagli studios hollywoodiani. Un film senza acuti indimenticabili, ma ben girato, con grande ritmo, ben recitato, ottimamente scritto e che, al centro di una trama in cui per decenni abbiamo visto uomini, mette una donna decisamente straordinaria nel senso etimologico del termine (trailer).
Inutile infierire sul didascalico sottotitolo italiano che accompagna il nome della protagonista interpretata da una bravissima Jessica Chastain, che smette i panni di donna angelicata malickiana e indossa quelli di una donna forte, indipendente, determinata e senza scrupoli, una sorta di moderna Katherine Hepburn o, in anni più vicini a noi, Cate Blanchett, prestata agli intrighi di potere, tra politica, corruzione, etica. Come loro, immancabilmente, indossa un abito diverso in ogni sequenza.
Elizabeth Sloane è una lobbista in carriera totalmente immersa nel suo lavoro e pronta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi, ammesso che questo non voglia dire tradire se stessa e le proprie idee. Difende la produzione dell'olio di palma e il rischio che venga tassato a cifre iperboliche, quella che chiama la Nutella tax, ma si oppone fermamente quando l'incarico è quello di favorire le lobby delle armi, offendendo senza mezzi termini i potenti membri che le rappresentano per le loro idee antiquate.
Il rifiuto dell'incarico di contrastare la proposta di legge Heaton-Harris, finalizzata a dare più regole per il possesso delle armi negli Stati Uniti, non solo la spinge a licenziarsi dall'agenzia per cui lavora, ma le fa decidere di combattere la stessa battaglia sul versante opposto insieme ad un gruppo di giovani collaboratori ai suoi ordini. L'obiettivo, naturalmente, è quello di ottenere il favore della maggioranza dei membri del Congresso, partendo da una posizione di svantaggio, poiché avvicinarsi al secondo emendamento della costituzione dei padri fondatori resta un forte tabù e poco conta, come fa notare il film, se le statistiche parlano di 362 casi all'anno di armi usate a scuola o se quell'emendamento è stato firmato nel 1791, quando quello era l'unico modo di difendersi dalla colonizzazione europea.
La pellicola racconta questa sfida tra la Cole Kravits guidata da Pat Connors (Michael Stuhlbarg) e George Dupont (Sam Waterston), che sostiene la posizione conservatrice di massima libertà nell'acquisto e nella detenzione delle armi, e la Peterson Wyatt, guidata da Rodolfo Schmidt (Mark Strong), responsabile dell'ingaggio di Elizabeth che fa della nobile causa anche e soprattutto una personale battaglia che la porta a coinvolgere e ad usare la vita dei suoi principali collaboratori, tra cui spiccano Esme Manucharian (Gugu Mbatha-Raw), testimone ai tempi del college di una delle celebri sparatorie scolastiche, quella di Bloomington nel 1998, e Jane Molloy (Alison Pill), che dopo anni di duro lavoro e angherie subite da parte di Elizabeth è una di coloro che decide di non seguirla. Non a caso due donne che, oltre a Elizabeth, dimostrano la loro forza e la loro capacità in un contesto politico che sta cercando di strumentalizzare proprio l'elettorato femminile, facendo leva sulla paura e sul bisogno di sicurezza, per ottenere il sostegno alla difesa armata dei privati cittadini.
Vincere in un sistema come questo può diventare più importante della causa di partenza e la continua rincorsa dell'obiettivo rischia persino di far perdere il senso al tutto e così, quando Schmidt in un momento di difficoltà per Elizabeth le chiede "perché non molli?", la risposta della donna, in uno dei suoi pochissimi cenni di debolezza e umanità, è un atterrito "e poi che faccio?". E non a caso la stessa miss Sloane, in un altro passo della vicenda arriverà a dire che "il suicidio di una carriera non è poi male se l'alternativa è il suicidio per la carriera", sottolineando come una dedizione totalizzante al lavoro possa essere distruttiva.
La narrazione si svolge completamente in flashback, a partire dall'inchiesta, presidiata dal senatore Sam Sperling, impersonato da un attore splendidamente ambiguo come il depalmiano John Lithgow, a cui la protagonista viene sottoposta per i suoi metodi non sempre rispettosi delle regole e che le permette di tornare indietro alle origini della vicenda.
Elizabeth Sloane è costantemente in scena e, nelle poche sequenze in cui non è a lavoro, la sua vita è fatta di rapide cene in un ristorante etnico e di sesso in albergo con un giovane escort, Forde (Jack Lacy), che con lei vorrebbe andare oltre una relazione a pagamento.
Come anticipato, la sceneggiatura di Jonathan Perera è indubbiamente la cosa migliore del film di John Madden e la logica del fine giustifica i mezzi sottesa alla trama rimanda a recenti serie tv di grande successo come The Newsroom e House of cards. La maggior parte delle battute migliori, oltre quelle già segnalate, sono riservate alla stessa Sloane che, ad esempio, spiega in poche parole che "una lobbista deve prevedere, deve anticipare le mosse del suo avversario e trovare le contromisure. Chi vince trama un passo avanti ai suoi nemici e svela gli assi nella manica dopo che gli altri hanno svelato i loro, deve essere certa che li sorprenderà e che non si farà mai sorprendere". Fatalmente una donna come questa legge John Grisham, come il regista evidenzia. 
È perfetta anche la definizione di cinismo come "assenza di ingenuità tanto intensamente esibita" o la battuta ridanciana ma ficcante "benvenuti in America, dove aspetti sei mesi per una radiografia ma puoi comprare una pistola automatica in cinque minuti". Ancora più divertente è la magnifica e rapida barzelletta (tutto ha un ritmo elevatissimo nel film di Madden) detta al suo staff per ricordare loro che non studiare bene il proprio argomento "può significare farsi scappare preziose opportunità", e che narra di un prete apparentemente redarguito da una suora che in auto, quando lui le stringe il ginocchio invece di afferrare la leva del cambio, gli ricorda il passo del vangelo di Luca (14,10) che, al contrario, invita ad avanzare (vedi).
I ragazzi che cambiano società di lavoro insieme a lei ricordano le maggiori dotazioni del precedente ufficio con un eloquente "avevamo di tutto ma non il tempo per usarlo", frase che suona come una trasposizione nell'odierno mondo del lavoro di quella sul progresso che divora il tempo a disposizione dell'uomo che Orson Welles inseriva nelle battute iniziali de L'orgoglio degli Amberson. E ancora, uno dei senatori che si sente pressato oltremodo dalla lobby delle armi ad esporsi in loro favore, prorompe con un diretto e molto poco onorevole "vuole mettermi chino su un tavolo da biliardo a darmi lezioni di libertà?". Ma si potrebbe andare avanti per molto ancora, praticamente ogni sequenza è segnata da una frase ad effetto da mandare a memoria.
Il finale, sorprendente, elogio del lavoro di squadra, ma anche di strategia, astuzia e calcolo, merita la visione dell'intero film!

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