domenica 25 dicembre 2016

La mia vita da zucchina (Barras 2016)

Realizzato con la tecnica dello stop motion, in italiano "passo uno", con personaggi alti 25 centimetri fatti con schiuma di lattice (capelli), silicone (braccia), resina (viso), tessuti (vestiti), fotografati 24 volte al secondo cambiandone di volta in volta la posizione nello spazio, La mia vita da zucchina (Ma vie da courgette) ha strabiliato la Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2016, guadagnandosi anche il ruolo di rappresentante della Svizzera come miglior film straniero alla prossima cerimonia degli Oscar.

Claude Barras, al suo esordio, con l'ottima collaborazione alla sceneggiatura di Céline Sciamma - da oltre dieci anni specializzata anche come regista su soggetti e film di formazione -, che adatta il romanzo di Gilles Paris (Autobiografia di una zucchina), gira un gioiello d'animazione dal valore indiscutibile, con più livelli di lettura, che lo rendono apprezzabile da bambini e adulti grazie ai temi sociali affrontati e alla vasta gamma di sentimenti suscitati nello spettatore.
Zucchina è il soprannome non esattamente lusinghiero che la madre, divenuta alcolista dopo essere stata abbandonata dal compagno, ha dato al piccolo protagonista della storia, un bambino di nove anni che dalla sua stanza evade da quella dura realtà collezionando lattine di birra vuote e immaginando un papà supereroe che prende corpo sull'aquilone che fa volare dalla finestrella della mansarda e che, sull'altro lato, mostra una pollastrella, amaro riferimento della madre al suo ex che il figlio non può ancora comprendere. Che il punto massimo dell'evasione sia rappresentato dal volo di quell'aquilone, poi, si accorda perfettamente con il vero nome di Zucchina, Icare...
L'improvvisa morte della madre porterà Icare nella casa-famiglia di Les Fointaines, dove conoscerà altri bambini dall'infanzia difficile con i quali, dopo le iniziali diffidenze, costituirà un'idea alternativa alla famiglia mai avuta, crescendo insieme a loro nel paradosso che oppone il forte legame venutosi a creare tra i ragazzi con il naturale obiettivo dell'adozione che inevitabilmente lo spezzerà...

Barras racconta una storia davvero poco infantile, un potenziale dramma in cui il suo autore sa trovare non solo il modo di toccare le corde dei sentimenti ma anche di sottolineare come dalle sofferenze iniziali la vita di Icare si assesterà a quote migliori, grazie alla solidarietà, all'amicizia, alla professionalità di chi gestisce Les Fontaines, ecc.
Tanti gli elementi formali da analizzare: la situazione familiare del protagonista è sintetizzata dalla foto strappata in corrispondenza del padre; Icare-Zucchina ha una fisionomia che, per chi era bambino ad inizio anni ottanta, ricorda molto da vicino il Pinocchio dell'anime giapponese della Tatsunoko (Le nuove avventure di Pinocchio - Hara 1972) che in Italia spopolò a partire dal 1980, con il suo viso tondo, i capelli blu, il naso arancio-rosso, naturalmente qui più piccolo. A tutto questo fa da contraltare la sua maglietta verde su cui campeggia una stella rossa, che rivela gli ideali di Barras.
Gli scenari hanno dettagli che vale la pena sottolineare: le porte presentano maniglie molto basse per adattarle alle dimensioni inferiori dei personaggi, così come le automobili hanno proporzioni altrettanto singolari per la medesima esigenza; sulle pareti esterne dell'istituto spiccano murales che "sporcano" la consueta perfezione che ci aspetteremmo in un film d'animazione, in favore di un maggiore realismo; nella stanza della direttrice di Les Fontaines sono appese riproduzioni di dipinti di Mirò, Klee e Kandinskij che, con gli elementi base del linguaggio grafico, meglio di ogni altro si adattano ad un istituto per l`infanzia; la piccola Camille legge Kafka e sulla copertina del libro senza titolo si vede uno scarafaggio che basta ad indicare ai più grandi si tratti de La metamorfosi.
Oltre a Icare contribuiscono alla riuscita del film gli altri personaggi. Su tutti i bambini della casa-famiglia, giunti lì per motivi diversi che comprendono persino l'omicidio di una moglie da parte del marito. Simon, rosso di capelli e con un ciuffo ribelle, è il più vispo, il leader rumoroso e un po' oppressivo, quello con cui Zucchina arriverà allo scontro prima verbale, subendo il soprannome di Patata che gli viene affibbiato dal coetaneo, e poi fisico, con una scazzottata dopo la quale i due diventeranno veri amici; Camille è la bambina fuori dagli schemi per cui Icare proverà i primi turbamenti amorosi; e poi il resto del gruppo, piacevolmente e riccamente multietnico: Ahmed, Jujube, Alice, Beatrice. Tra gli adulti, oltre la mamma di Icare, i due assistenti sociali dell'istituto Les Fontaines, e il commissario che si affezionerà al protagonista.
La buona sceneggiatura di Céline Sciamma alterna battute tristi che, seppur con amarezza, creano unione, come quella di Simon che dialogando con Icare, in un momento di lucida negatività, dice "siamo tutti uguali, qui non c`è più nessuno che ci ama"; ad altre divertenti ma sempre all'insegna della crescita e della conoscenza, come testimoniano i dubbi di uno dei più piccoli che si chiede se il pisellino esploda durante i rapporti sessuali o la serie di "non lo abbandonerai nemmeno se" che i ragazzi rivolgono all'assistente sociale che ha appena avuto un bambino e tra cui sentiamo "se andrà male a scuola [...] se gli puzzeranno i piedi [...] se piangerà sempre [...] se vorrà fare il poliziotto [...] se sarà un punk".
Con La mia vita da zucchina si sorride, si riflette e si entra in empatia con una realtà troppo spesso vista con commiserazione che invece meriterebbe molta più attenzione da parte di chi la guarda da lontano. Un film per tutti e che soprattutto nelle scuole potrebbe fornire l'occasione di un proficuo approfondimento per i ragazzi (per gli insegnanti, questo il Progetto scuole della Teodora film).

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