mercoledì 19 ottobre 2016

Café society (Allen 2016)

Ci risiamo. Woody Allen gira per l`ennesima volta lo stesso film, inevitabilmente prevedibile, e divide come al solito i suoi spettatori tra chi "non se ne può più", "fantastico ritrovarsi nelle sue storie", "perché non smette?", "quante situazioni divertenti", ecc.
Non ci sarà mai soluzione a queste diatribe, ma ci sono delle certezze: anche questa volta siamo ben lontano dai capolavori di un tempo; il regista newyorchese è pienamente a suo agio con una storia ambientata negli anni trenta, sguazza nell'autocitazionismo e, anche se l`inedito non è tutto nel cinema, anzi, i personaggi sono sempre facilmente individuabili: ma questo non fa di questi film dei "classici", al pari delle commedie di Plauto o dei canovacci della commedia dell'arte?

Come sempre c'è un alter ego di Allen, stavolta interpretato da Jesse Eisenberg, nel ruolo di ragazzo goffo e imbranato sulle prime (si pensi alla sequenza con l'inesperta prostituta Candy, pagata per non fare sesso, proprio come lo stesso Woody faceva con Linda Ash-Mira Sorvino in La dea dell'amore, 1995), ma che col tempo acquista fiducia.
Ebreo praticante nella vita, l'attore si cala perfettamente nel personaggio, Bobby Dorfman, un newyorchese di famiglia ortodossa ebrea da copione. Il copione riemerso per l'occasione sembra essere quello di Radio days (Allen 1987): la madre, Rose (Jeannie Berlin), dominante, accentratrice, mai soddisfatta; il padre, Marty (Ken Stott), sempre in casa e in canottiera, continuamente criticato e sottomesso dalla moglie; la sorella maggiore, Evelyn (Sari Lennick), sposata con Leonard (Stephen Kunken), uomo con idee comuniste, che fa gli stessi discorsi dello zio Abe "convertito" dai vicini nel film del 1987; il fratello maggiore, il primogenito Ben (Corey Stoll), gangster che risolve i problemi a suo modo, mentre il resto della famiglia, soprattutto Rose, fa finta di non rendersi conto della sua reale attività.
Il contrasto tra i genitori di Bobby ha come argomento prediletto il fratello di Rose, Phil Stern (Steve Carell), uomo di grande successo a Hollywood, impresario e amico di molte star, che la sorella adora e usa come modello positivo contro il marito, che dal canto suo lo detesta perché non è un perfetto ebreo... il contrasto diventa ancora più intenso quando Bobby raggiunge lo zio a Los Angeles per cercare un impiego nella speranza di fare fortuna come lui!
Queste tematiche perfettamente alleniane si innestano poi su un altro filone caro al regista: la commedia romantica a sua volta fusa con quella degli equivoci... Bobby si innamora fatalmente della bella segretaria di Phil, Veronica 'Vonnie' Sybil (Kristen Stewart), la quale segue il consueto cliché della segretaria, con tutti gli annessi e connessi, che complicano la trama in un groviglio di detto e non detto, saputo e non saputo, in cui brancolano i soli personaggi, poiché il pubblico può tranquillamente andare a memoria.
Nella vicenda trovano posto anche Parker Posey, inconsuetamente bionda nei panni di Rad Taylor, un'amica di Phil che diventa confidente di Bobby; Blake Lively, in quelli di Veronica Hayes, altra conquista del protagonista; e persino un'icona degli anni '80 come Sheryl Lee (la lynchiana Laura Palmer), che interpreta la moglie di Phil.
Il film è inevitabilmente metacinematografico e per tutta la sua durata sentiamo parlare di star del calibro di Paul Muni, Ginger Rogers, Barbara Stanwick, ecc., così come la mdp riprende cartelloni, schermi e sale in cui si proiettano pellicole come Follie d'inverno (Swing time, Stevens 1936) o La signora in rosso (Woman in red, Florey 1935).
La fotografia di Storaro è buona, ma non ruba l'occhio, così come la regia di Woody Allen, mai stato un innovatore dal punto di vista tecnico, anche se si possono notare uno split-screen ottenuto con il montante di una cabina telefonica e un bel surcadrage che sfrutta l'apertura di una grotta dall'interno della quale vengono ripresi Bobby e Vonnie.
Non tutte le sequenze funzionano alla perfezione, ma nel complesso il film scorre, grazie ad una sceneggiatura che regala alcune perle che meritano di essere citate: tra i consigli di Rose al figlio c'è un fantastico "vivi ogni giorno come fosse l'ultimo e un giorno ci azzeccherai"; lo stesso Bobby parlando della cucina della madre a Vonnie dice "quando un ebreo cucina qualcosa è sempre troppo cotto perché bisogna ammazzare i germi"; ma è soprattutto Ben, forse il personaggio migliore della pellicola, a cui viene riservata una frase che sintetizza la proverbiale vena atea del regista quando, convertitosi al cristianesimo, giustifica la sua scelta, che scatena la rabbia della madre più della condotta malavitosa, con un razionalissimo "peccato che la religione ebraica non abbia un aldilà, sai quanti più clienti avrebbero?".
Immaginate una battuta più alleniana di questa?

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