1963-1966. Quattro anni incredibilmente densi di eventi durante i quali una parte della storia fu determinata dall'ascesa del gruppo più celebre del secolo: John, Paul, George e Ringo cambiarono per sempre il modo di intendere la musica e qualcuno, per la quantità di brani di qualità e di successo, arriva a paragonarli a Mozart.
Ron Howard, che ai tempi era un bambino, racconta velocemente la formazione e i primi successi, per dedicarsi soprattutto ai tour che portarono i quattro di Liverpool in tutto il mondo. Qualche split screen iniziale per far scorrere sullo schermo le immagini dei Beatles insieme alle interviste dei loro primi fan; qualche effetto per dare movimento alle foto d'epoca in cui perlopiù le sigarette fumano ancora (tanto da far pensare che qualche multinazionale del tabacco abbia finanziato il progetto); e poi tanti filmati, alcuni rari o inediti, che illustrano la vita dei Fab Four, in anni in cui l'assassinio di Kennedy e la guerra in Vietnam stavano cambiando la società. I Beatles non si lasciavano influenzare da ciò che accadeva e rimanevano concentrati su loro stessi o almeno così dicono oggi, perché in realtà contribuirono a quei mutamenti, come avvenne nel 1964, in un 11 settembre ben più positivo per gli Stati Uniti di quello che ha aperto il XXI secolo, durante il quale il gruppo si oppose a suonare al Gator Bowl Stadium di Jacksonville (Florida) se il pubblico non fosse stato misto. Erano gli anni della segregazione razziale, quelli dei bagni e dei rubinetti separati per bianchi e neri, ma il concerto, grazie a loro, non fu vietato ai cittadini di colore, un evento che ancora oggi gli afroamericani ricordano straordinario...
Howard, inoltre, inserisce nel suo documentario altri due momenti "politici" meno voluti dal gruppo: il loro rifiuto all'invito a cena da parte della first lady delle Filippine nel palazzo presidenziale di Manila e, soprattutto, la celebre frase con cui John Lennon dichiarò che i Beatles erano più famosi di Gesù, quella che scatenò il putiferio negli USA, fino ai roghi dei dischi negli stati del sud come l'Alabama, con scene degne di Fahrenheit 451 (Truffaut 1966).
Il biglietto del concerto del Gator Bowl di Jacksonville |
Oltre alle parole dei quattro "scarafaggi", sia quelle di allora, quando si ponevano in maniera sfacciata davanti ai microfoni, sia quelle recenti, con Paul, George e Ringo che ricordano quegli anni, nel film ascoltiamo le interviste di alcuni personaggi celebri - davvero troppo pochi - che parlano della propria esperienza personale: alla fine si ricordano l'amore per John della bimba Sigourney Weaver; Elvis Costello che paragona i fan dei Beatles ai tifosi di una squadra di calcio che vince coppe tutte le stagioni; ma soprattutto la bella testimonianza di Whoopi Goldberg, bambina anche lei quando la madre la accompagnò a sorpresa allo storico concerto allo Shea Stadium di New York del 15 agosto 1965 (vedi).
Quel giorno, infatti, nel celebre "diamante" dei Mets non ci furono mazze e palle dalle molte cuciture, ma i Beatles inaugurarono quella che oggi sembra un'ovvietà, i concerti negli stadi: oltre 56 mila persone ad ascoltare un gruppo musicale, una quantità dieci volte superiore a quella dei più grandi teatri. Alla fine del film, viene offerto allo spettatore l'intero concerto, attraverso le riprese di allora restaurate per l'occasione. Mezz'ora di Beatles (sì, avete capito bene, tanto durò il concerto oltre ai venti minuti precedenti destinati ai gruppi spalla), anticipata dalla presentazione di Ed Sullivan, in cui vediamo i quattro abbigliati con delle divise su cui brillano stelle da sceriffi, sudare al caldo ferragostano newyorchese, suonare e cantare anche senza riuscire a sentire perfettamente i propri strumenti e le proprie voci, non certo supportati dai mezzi adeguati, mentre il pubblico impazzito di gioia ed entusiasmo era costretto ad ascoltarli praticamente solo attraverso gli altoparlanti dello stadio.
Epstein sotto il palco allo Shea Stadium (15/8/1965) |
Come precisa il sottotitolo, il documentario è incentrato esclusivamente sugli anni in cui i Beatles suonarono dal vivo, cosicché degli anni precedenti ci si limita solo a qualche accenno, come il viaggio ad Amburgo, dove si esibirono il 17 agosto 1960, quando insieme a Paul McCartney, John Lennon e George Harrison, c'erano ancora il bassista Stuart “Stu” Sutcliffe e il batterista Pete Best (di cui non si fa menzione), o l'ingresso nel gruppo di Ringo Starr nel 1962.
Tra Amburgo e la definitiva composizione del gruppo c'è il 1961, anno in cui Brian Epstein li ascoltò per la prima volta al Cavern Club di Liverpool, dove andò per conoscere il gruppo che molti avventori dei suoi negozi di dischi chiedevano da un po' (le prime incisioni realizzate ad Amburgo non erano disponibili in Inghilterra). Epstein, che morirà nel 1967 ad appena trentatré anni, divenne il loro manager, ne determinò il look - fu lui a decidere che i quattro dovessero indossare gli stessi abiti in modo da apparire come "un mostro a quattro teste" - e li accompagnò ai primi successi.
L'altro grande nome, recentemente scomparso e a cui peraltro è dedicato il film, è naturalmente quello di George Martin (1926-2016), il geniale produttore spesso definito il "quinto Beatle", che vediamo più volte in azione in sala d'incisione con i quattro ragazzi.
Seguirono gli anni dei tour inglesi (vediamo immagini del concerto di Manchester del 1963) e poi quelli internazionali, a partire dall'approdo negli Stati Uniti nel 1964 sull'onda del successo di I want to hold your hand, il loro primo brano in vetta alle classifiche negli states. Paul McCartney ricorda quando seppero di aver raggiunto quel traguardo: di quel momento restano le foto con i quattro ragazzi che festeggiano in una stanza d'albergo a Parigi!
E poi la testimonianza di Larry Kane, il giornalista che li seguì durante il tour statunitense del 1964, che ricorda la propria iniziale diffidenza e la meraviglia per quella forza prorompente che scaturiva dagli adolescenti in quei concerti.
In mezzo ai tanti successi musicali, un paio di film realizzati, A hard day's night (1964; in Italia Tutti per uno), ancora in bianco e nero, e Help! (1965), entrambi diretti da Richard Lester che, per il secondo, girato in gran parte alle Bahamas, li ricorda quasi sempre sotto gli effetti della marijuana, e uno mai completato nel 1966.
Viene citato anche il primo concerto italiano, del 24 giugno 1965 al velodromo Vigorelli di Milano, con Peppino di Capri a fargli da spalla (sic! Ci furono poi Genova e Roma, tra le critiche - leggi); la nomina a baronetti, il 28 ottobre 1965, e anche gli spettacoli alla Budokan Hall di Tokyo, accolti dalle manifestazioni di protesta dei giapponesi più tradizionalisti.
L'insofferenza per quella vita, però, era già iniziata da qualche tempo: i primi a non tollerare più i tanti impegni furono John e George, ma tutti decisero presto di smettere con i concerti: l'ultimo fu quello del 29 agosto 1966 al Candlestick Park di San Francisco. Le loro giornate erano ormai cadenzate da impegni continui. Parafrasando il titolo del film, facendo slittare il significato di quelle parole dalla tematica amorosa alla loro condizione di stress, erano evidentemente costretti a vivere "otto giorni a settimana". Liberandosi dai tour poterono tornare a tempo pieno a quello che amavano di più, stare in sala d'incisione a creare la loro musica, e negli anni seguenti realizzarono album indimenticabili e sperimentali come Revolver (1966), Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band (1967) o il White Album (1968).
Ci fu un solo altro concerto, come non può mancare di sottolineare Ron Howard, che ne ripropone alcuni momenti: quello celeberrimo del 30 gennaio 1969 sul tetto della Apple records di Londra, iniziato al suono di Don’t let me down, con le pellicce di John e George, l'impermeabile rosso di Ringo, giacca e barba curata per Paul, citato filologicamente anche dal recente musical Across the universe (Taymor 2007), ma imitato anche anni prima dagli U2 per il videoclip di Where the streets have no name (1987).
Il regista ha più volte precisato che “questo documentario è dedicato soprattutto a coloro che non c’erano”, ma il film, pur non essendo un capolavoro, di certo genera su tutto il pubblico la voglia di cantare in sala e di riascoltare tutti i dischi dei Beatles una volta tornati a casa!
Larry Kane tra Paul e John |
E poi la testimonianza di Larry Kane, il giornalista che li seguì durante il tour statunitense del 1964, che ricorda la propria iniziale diffidenza e la meraviglia per quella forza prorompente che scaturiva dagli adolescenti in quei concerti.
In mezzo ai tanti successi musicali, un paio di film realizzati, A hard day's night (1964; in Italia Tutti per uno), ancora in bianco e nero, e Help! (1965), entrambi diretti da Richard Lester che, per il secondo, girato in gran parte alle Bahamas, li ricorda quasi sempre sotto gli effetti della marijuana, e uno mai completato nel 1966.
I Beatles al Budokan Hall di Tokyo (30/6/1966) |
L'insofferenza per quella vita, però, era già iniziata da qualche tempo: i primi a non tollerare più i tanti impegni furono John e George, ma tutti decisero presto di smettere con i concerti: l'ultimo fu quello del 29 agosto 1966 al Candlestick Park di San Francisco. Le loro giornate erano ormai cadenzate da impegni continui. Parafrasando il titolo del film, facendo slittare il significato di quelle parole dalla tematica amorosa alla loro condizione di stress, erano evidentemente costretti a vivere "otto giorni a settimana". Liberandosi dai tour poterono tornare a tempo pieno a quello che amavano di più, stare in sala d'incisione a creare la loro musica, e negli anni seguenti realizzarono album indimenticabili e sperimentali come Revolver (1966), Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band (1967) o il White Album (1968).
Ci fu un solo altro concerto, come non può mancare di sottolineare Ron Howard, che ne ripropone alcuni momenti: quello celeberrimo del 30 gennaio 1969 sul tetto della Apple records di Londra, iniziato al suono di Don’t let me down, con le pellicce di John e George, l'impermeabile rosso di Ringo, giacca e barba curata per Paul, citato filologicamente anche dal recente musical Across the universe (Taymor 2007), ma imitato anche anni prima dagli U2 per il videoclip di Where the streets have no name (1987).
Il regista ha più volte precisato che “questo documentario è dedicato soprattutto a coloro che non c’erano”, ma il film, pur non essendo un capolavoro, di certo genera su tutto il pubblico la voglia di cantare in sala e di riascoltare tutti i dischi dei Beatles una volta tornati a casa!
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