Esattamente trent'anni dopo il capolavoro dei Monty Python - anche se in Italia The Zero Theorem è stato distribuito tre anni dopo -, il più visionario del celebre gruppo di comici britannici ha deciso di tornare ad un futuro distopico, come aveva già fatto in Brazil (1985).
Qohen Leth (Christoph Waltz) è un genio informatico dipendente della Mancom, un colosso per la quale lavora con il compito di "sgranocchiare identità". Il suo superiore diretto è Joby (David Thewlis), ma alla sommità della gerarchia c'è un manager (Matt Damon) il cui alto profilo ne ha rarefatto l'identità fino a farlo considerare una divinità.
Christoph Waltz è il solito gigante e stavolta somiglia davvero molto al Vincent Pryce protagonista di Brazil. Qohen vive in una società orwelliana, sempre controllato dal suo capo, grazie a telecamere sistemate ovunque, in casa e fuori, pur non facendoci troppo caso o spesso ignorando del tutto la situazione.
L'inizio della pellicola è profondamente straniante: vediamo Qohen totalmente calvo e nudo, seduto davanti ad un monitor verticale in cui osserva l'universo. Tutt'intorno ha però vetrate decorate, dipinti religiosi, archi goticheggianti: il suo sembra uno studiolo di secoli fa. Il disorientamento dello spettatore termina qualche minuto dopo, quando si rende conto che la casa è stata davvero una chiesa adattata ad appartamento, con il letto all'altezza dell'organo, la scrivania sistemata al centro del presbiterio, i divani nella navata, e la cucina nell'unica cappella in cui l`architettura originaria prevedeva qualcosa di simile ad un "lavandino", il battistero! E Qohen più avanti ne spiegherà la storia, con una battuta da Monty Python dei tempi d`oro: la chiesa apparteneva ad un ordine religioso tra i cui voti c`era quello del silenzio e per questo nessuno poté dare l`allarme per l`incendio che la distrusse. Geniale!
In una scenografia da urlo come questa, non sorprende che Gilliam abbia girato buona parte del film in questo grande ambiente funzionalmente diversificato. Vedere uscire Qohen di casa, peraltro, regala altre perle visionarie, come quella che potremmo definire la "pubblicità attiva", una fascia continua che costituisce un unico monitor e che non solo è ovunque, ma i cui messaggi seguono il passante di turno senza fermarsi fino al successivo potenziale avventore. Si pubblicizza tutto, ovviamente, e le telereligioni hanno raggiunto livelli surreali che la sceneggiatura non manca di sottoporci, proponendo una "chiesa di Batman redentore" che si pone in concorrenza con Scientology.
In una delle poche sequenze girate fuori dalla casa di Qohen, il protagonista partecipa ad una festa organizzata dal suo capo, Joby, e qui scopriamo altri dettagli interessanti sulla sua vita: gli basta mangiare "alimenti dal gusto troppo percettibile" come un'oliva, per esempio, per stare male. Divertente, inoltre, la sequenza dell'espulsione dell'oliva, con tanto di manovra di Heimlich, lampadina colpita e topolino felice di rientrare nella propria tana con un gustoso bottino.
Durante la festa Qohen conosce Bainsley (Mélanie Thierry), una bellissima ragazza che sembra interessarsi a lui, e incontra il direttore della Mancom, i cui vestiti si adeguano cromaticamente a poltrone e tende della scenografia, in un camaleontismo che è evidente metafora del suo ruolo di Grande Fratello orwelliano.
Quest'ultimo lo porterà nell'unico altro fondamentale luogo del film: la sala in cui una totemica macchina database costituisce il cervellone centrale dell'attività della Mancom, a cui lavora, nei ritagli di tempo, l'adolescente figlio del direttore, Bob (Lucas Hedges), geniale quanto Qohen. In questo posto, altro capolavoro della scenografia, con la struttura principale che somiglia davvero molto alla torre di Metropolis (Lang 1927), a sua volta esemplata su quella di Babele, e con delle passerelle caratterizzate da dischi in porfido di chiara ispirazione classica che conferiscono autorità al luogo, Qohen riceverà come nuovo incarico quello di dimostrare il teorema zero del titolo, attraverso un programma che ai nostri occhi appare come un videogioco (sorta di Tetris tridimensionale) con cubi che su ogni lato riportano una formula matematica e una voce-tormentone che continua a ripetere "zero deve corrispondere al 100%".
Saranno proprio Bainsley e Bob a permettere a Qohen di vedere le cose con altri occhi: la prima, che giungerà a casa di Qohen come una Mr Wolf (Pulp Fiction) al femminile dicendo "risolvo problemi", lo farà uscire in parte dall`isolamento nerd-informatico; il secondo, che chiama tutti Bob poiché "è una perdita di cellule cerebrali starsi a ricordare tutti i nomi" e che gli precisa cinicamente che "la verità non è mai piacevole", gli renderà più chiaro quanto sia capillare il controllo della Mancom sulle loro vite, e quanti dettagli della vita quotidiana che Qohen crede reali siano invece indotti dall`alto, a cominciare da una chiamata telefonica che aspetta da anni...
Tra i temi affrontati, uno sembra tratto da un film di David Cronenberg ed è l'idea della vita come infezione. Qohen durante una visita si sente dire dal medico come la nascita non sia altro che l'inizio della morte e che ogni passo è un avvicinamento ad essa, poiché tutto contribuisce ad un peggioramento della perfezione (?) iniziale di ogni individuo.
In tal senso tutte le azioni compiute durante la vita per curare l`infezione rappresentano dei palliativi all`ineluttabilità di quel momento. E nella vita di Qohen questo vale per la sua psicoterapia telematica con la dottoressa Shrink-Rom (Tilda Swinton), ma anche per l`ambigua relazione con Bainsley, che lo inizia all`amore, anch`esso virtuale, raggiunto grazie ad una tuta connessa al computer che lo rende simile ad un paio di personaggi alleniani indimenticabili: lo spermatozoo antropomorfo di Tutto quello che avreste voluto sapere... (1972) e il giullare di Amore e guerra (1975). Alla sorpresa di Qohen sull`incredibile sensazione reale di quella dimensione, Bainsley risponde che è "molto più che reale, siamo nei nostri computer", e questo elimina il terrore del contagio che nella vita vera impedisce gli avvicinamenti fisici. Un paio di curiosità: la sigla utilizzata per questo software, VR (Virtual Reality?), è Creep dei Radiohead nella versione di Karen Souza, mentre un cartello pubblicitario che promuove viaggi in località esotiche recita "escape to Paradise", come accadeva in Carlito`s Way (De Palma 1993).
Durante la festa Qohen conosce Bainsley (Mélanie Thierry), una bellissima ragazza che sembra interessarsi a lui, e incontra il direttore della Mancom, i cui vestiti si adeguano cromaticamente a poltrone e tende della scenografia, in un camaleontismo che è evidente metafora del suo ruolo di Grande Fratello orwelliano.
Quest'ultimo lo porterà nell'unico altro fondamentale luogo del film: la sala in cui una totemica macchina database costituisce il cervellone centrale dell'attività della Mancom, a cui lavora, nei ritagli di tempo, l'adolescente figlio del direttore, Bob (Lucas Hedges), geniale quanto Qohen. In questo posto, altro capolavoro della scenografia, con la struttura principale che somiglia davvero molto alla torre di Metropolis (Lang 1927), a sua volta esemplata su quella di Babele, e con delle passerelle caratterizzate da dischi in porfido di chiara ispirazione classica che conferiscono autorità al luogo, Qohen riceverà come nuovo incarico quello di dimostrare il teorema zero del titolo, attraverso un programma che ai nostri occhi appare come un videogioco (sorta di Tetris tridimensionale) con cubi che su ogni lato riportano una formula matematica e una voce-tormentone che continua a ripetere "zero deve corrispondere al 100%".
Le torri di Gilliam e di Fritz Lang |
Tra i temi affrontati, uno sembra tratto da un film di David Cronenberg ed è l'idea della vita come infezione. Qohen durante una visita si sente dire dal medico come la nascita non sia altro che l'inizio della morte e che ogni passo è un avvicinamento ad essa, poiché tutto contribuisce ad un peggioramento della perfezione (?) iniziale di ogni individuo.
In tal senso tutte le azioni compiute durante la vita per curare l`infezione rappresentano dei palliativi all`ineluttabilità di quel momento. E nella vita di Qohen questo vale per la sua psicoterapia telematica con la dottoressa Shrink-Rom (Tilda Swinton), ma anche per l`ambigua relazione con Bainsley, che lo inizia all`amore, anch`esso virtuale, raggiunto grazie ad una tuta connessa al computer che lo rende simile ad un paio di personaggi alleniani indimenticabili: lo spermatozoo antropomorfo di Tutto quello che avreste voluto sapere... (1972) e il giullare di Amore e guerra (1975). Alla sorpresa di Qohen sull`incredibile sensazione reale di quella dimensione, Bainsley risponde che è "molto più che reale, siamo nei nostri computer", e questo elimina il terrore del contagio che nella vita vera impedisce gli avvicinamenti fisici. Un paio di curiosità: la sigla utilizzata per questo software, VR (Virtual Reality?), è Creep dei Radiohead nella versione di Karen Souza, mentre un cartello pubblicitario che promuove viaggi in località esotiche recita "escape to Paradise", come accadeva in Carlito`s Way (De Palma 1993).
Gilliam non lascia nulla al caso e, tornando al capolavoro scenografico del film, nell`atipico appartamento di Qohen vediamo sculture e dipinti dai vari soggetti religiosi, da un San Sebastiano ad un Compianto sul Cristo morto, da un Battesimo di Cristo ad un Crocifisso (al posto della cui testa è sistemata una delle tante telecamere della Mancom), fino ad un affresco con un mostro demoniaco e dei dannati. E la grande attenzione data dal regista a questi elementi è palese quando proprio sotto quest`ultima scena Bob e Qohen dialogano sulla fine del mondo, con Bob che scrive con il gesso su quello stesso muro le formule matematiche che la spiegano razionalmente.
Per chiudere con altri dettagli particolarmente significanti, è bellissima la parete di divieti che campeggia in bella mostra in un parco della città, che dimostra come nel futuro distopico ipotizzato da Gilliam sia tutto proibito, anche in maniera pythonianamente esilarante, dal mangiare al bere, dal sedersi all`usare la bicicletta, ma anche gli sci d`acqua e i dadi (sic).
La vita non aveva senso già ai tempi dei Monty Python, ora l`idea appare confermata, se non vogliamo accettare l`ipotesi del direttore della Mancom per cui il senso è nel denaro e nel caos che paga; aspettare una chiamata per tutta la vita, come ha fatto Qohen, non può generare altro che una vita insignificante, meglio rifugiarsi nella propria dimensione e nella propria fetta di felicità, magari riponendo quella grossa palla di luce al tramonto...
La vita non aveva senso già ai tempi dei Monty Python, ora l`idea appare confermata, se non vogliamo accettare l`ipotesi del direttore della Mancom per cui il senso è nel denaro e nel caos che paga; aspettare una chiamata per tutta la vita, come ha fatto Qohen, non può generare altro che una vita insignificante, meglio rifugiarsi nella propria dimensione e nella propria fetta di felicità, magari riponendo quella grossa palla di luce al tramonto...
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