mercoledì 11 settembre 2024

La vita accanto (Giordana 2024)

Adattamento dell'omonimo romanzo della scrittrice vicentina Mariapia Veladiano (Einaudi 2011), il film di Marco Tullio Giordana è indubbiamente ben orchestrato, ma la maniera, nel senso più freddo del termine, sembra essersi spinta troppo oltre e aver preso il sopravvento.
Sapere, poi, che il progetto era nato con Marco Bellocchio, e che solo in un secondo tempo abbia rinunciato (dopo aver scritto la sceneggiatura, firmata anche da Gloria Malatesta e poi da Marco Tullio Giordana), lascia un senso di insoddisfazione per quello che avrebbe potuto essere e non è stato. La trama, infatti, si attaglia perfettamente per il regista di Bobbio, maestro di drammatiche disfunzioni familiari, che ha spesso affrontato tematiche simili con grandi risultati: si pensi al bellissimo film con cui esordì, I pugni in tasca (1965), ma anche opere come Salto nel vuoto (1980) -L'ora di religione (2002) o persino il recente Rapito (2023), in cui la disfunzione è invece causata dal potere religioso (trailer).
Ne La vita accanto la famiglia è quella di Rebecca (Sara Ciocca e poi Beatrice Barison), una bambina che vive con la madre, Maria (Valentina Bellè), che ha disturbi mentali, il padre Osvaldo (Paolo Pierobon), e la zia, Erminia (Sonia Bergamasco). Osvaldo ed Erminia sono gemelli, il primo è un ginecologo, la seconda pianista di fama, e hanno uno rapporto simbiotico e morboso.
La storia inizia nel 1980, anno di nascita di Rebecca, in un palazzo nobiliare di Vicenza che si affaccia sulle acque del Bacchiglione. La famiglia protagonista appartiene all'aristocrazia della provincia veneta, con irrisolti conflitti etico-religiosi, e che Rebecca nasca con un angioma di colore rosso sul viso, che le copre gran parte della guancia destra, appare un simbolo fin troppo chiaro della colpa familiare per la mente di Maria, che ama la figlia e la rifiuta al tempo stesso, in un dissidio psicotico che non le dà pace.
La donna, peraltro, è molto chiara con il prete che le parla del battesimo, che toglie "la macchia" - anche se non quella che vorrebbe lei - ma poi "nessuno sa niente... non ci conosciamo", con cui riassume il totale disinteresse degli altri nei confronti della vita reale e dei problemi che lei avverte. La follia, o quella che viene definita tale, perché lontana dalla socialità, è in fondo quella più aderente alla realtà quando l'ipocrisia perbenista è così spiccata?
Rebecca, che trova nella zia un modello imprescindibile, a sei anni già suona il pianoforte. Al piano di sopra dell'appartamento in cui vivono, infatti, Erminia si esercita in un grande ambiente con diversi pianoforti, sul cui pavimento campeggia un busto di Beethoven in bella mostra.
La mamma non vuole mandare Rebecca a scuola e sarà Erminia a portarcela, infischiandosene dei rischi che quella differenza fisica può causare alla bambina. E sarà un bene per la bambina, perché proprio la curiosità per quella macchia darà avvio all'amicizia con la sua compagna di banco, Lucilla, che in un istintivo e simbolico atto di inclusività si colorerà la guancia con un pennarello.
Lucilla è totalmente diversa da Rebecca: è estroversa e chiacchierona ("mi scappano le parole dalla bocca"), sa già badare a se stessa piuttosto bene, essendo la figlia di una donna separata (Michela Cescon), molto combattiva e anticonformista. Non a caso del padre ha una pessima opinione ("è un porco ed è brutto"), mentre alla sua età esterna già positivi giudizi estetici su Osvaldo, come fosse già un'adolescente.
La distanza sociale tra Rebecca e Lucilla è enorme: da un lato la bambina aristocratica che ha sempre vissuto in un palazzo antico e che, imbeccata da zia e padre, sa di appartenere a una famiglia ricca, ma con tante spese e tante tasse, dall'altra una bimba del popolo, la cui madre, che lavora in tipografia e vive con lei in una stamberga in affitto, arriva a paragonarsi alla Gertrude madre di Amleto, costretta a bere il veleno.
Le loro strade, che prevedono il superamento dei rispettivi drammi familiari, col tempo si separeranno: Rebecca, nonostante le urla della madre, che odia le scale al pianoforte ed Ermina, che nel suo diario non esita a chiamare "la mostra", sarà una pianista; Lucilla diventerà la cantante di un gruppo rock, dando esito palese alle loro rispettive indoli.
Erminia è indubbiamente il personaggio centrale della formazione di Rebecca e Sonia Bergamasco è particolarmente brava nell'interpretarla, agevolata anche dal suo passato di diplomata in pianoforte al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Giordana, in questo, è stato esplicito (nell'introduzione alla proiezione del film nella romana Villa Lazzaroni), precisando che non solo Bergamasco è perfetta nella parte - cosa indubitabile -, ma che anche l'esordiente Beatrice Barison, che recita nei panni di Rebecca dall'adolescenza in poi, è stata selezionata perché pianista. Un'idea comprensibile, ma che in fondo manda in malora lo studio e le capacità recitative di giovani attrici a cui non si chiede di tornare poi a fare la pianista, come nel caso di Barison, come il regista ha dichiarato di auspicare, con un malcelato ed egocentrico desiderio che La vita accanto sia la sua unica esperienza cinematografica.
Tornando al film, Erminia non solo è il modello artistico, ma anche il rumoroso sostegno di Rebecca quando sarà più grande: è lei a difenderla con il direttore del conservatorio, incapace nel gestire l'odio dei compagni di studi che vedono in Rebecca una raccomandata e una lacché della scuola, con tutto ciò che questo comporta a livello di angherie, soprusi e molestie. D'altronde è proprio Erminia che sin da piccola le ricorda che "la gente odia il talento... odia ciò che non ha".
Il rapporto di Rebecca con il padre è di un affetto formale, non arriva mai in profondità, e i dubbi della ragazza, anche quando vengono esternati, restano nell'ambiguità, cosicché persino quando gli chiede se abbia mai amato un'altra donna dopo Maria, il sì di Osvaldo la trova così poco convinta da spingere il padre a un'ulteriore battuta, "lo so, non ci crede nessuno".
Il teatro palladiano
Tante le location interessanti e quasi tutte ovviamente a Vicenza. Il teatro palladiano, dove vediamo suonare a Erminia il concerto di Natale (il brano è Impromptus op. 90 di Schubert), all'inizio del film, quando a Maria si rompono le acque. Piazza dei Signori, ripresa di notte, come fondale di una scena, con zia e nipote che tornano a casa passando davanti alle colonne con il leone di San Marco, per l'appartenenza della città alla Serenissima (1473) e con il Cristo Redentore (1640). Il quattrocentesco chiostro di San Pietro, con i suoi pilastri ottagoni in cotto, dov'è ambientato il conservatorio che frequenta Rebecca (nella realtà il conservatorio Arrigo Pedrollo di Vicenza è invece a San Domenico). Fa, però, eccezione uno degli interni del conservatorio: l'esame di ammissione infatti è girato all'interno dell'oratorio del Gonfalone di Roma, con i suoi dodici affreschi controiformati raffiguranti la Passione di Cristo, divisi da colonne tortili dipinte ben visibili nella scena. Più arduo, invece, riconoscere il luogo in cui è ambientata la sala del direttore del conservatorio, durante la sfuriata di Erminia, anch'essa piena di affreschi tardocinquenteschi, che qui sembrano d'area veneta. Ma poi, ancora a Vicenza, la Villa Valmarana "ai Nani", utilizzata soprattutto per la sua caratteristica più famosa, la serie di nani probabilmente ideati da Giandomenico Tiepolo, su modelli di Callot e poi dei Remondini, che riproducono figure della Commedia dell'Arte.
Piazza dei Signori
 
Rebecca, infatti, da bambina viene edotta dalla zia sulla leggenda che aleggia su quelle figure, e cioè che sarebbero in realtà servitori pietrificati dopo il suicidio di una fanciulla nana, confinata nella villa dai genitori proprio per la sua deformità. Il palazzo settecentesco dove vive la famiglia protagonista, infine, è Palazzo Franceschini Folco, oggi sede della Provincia di Vicenza. Dei suoi interni si riconoscono lo scalone e gli affreschi allegorici ottocenteschi, del veneziano Sebastiano Santi e del bellunese Giovanni Denin, che celebrano le virtù sociali dei committenti, ricchi produttori e commercianti di seta.
Sono soprattutto il muro di cinta della villa con i nani e le sale di quello che nella finzione è Palazzo Monaci i luoghi in cui prendono forma i sogni, gli incubi e le ansie della protagonista, che si barcamena tra drammi reali e immaginati, tra fatti accaduti e realtà plausibili. L'ambiguità resta in superficie e, priva dei toni disturbanti e della forza dirompente che ci si aspetterebbe, lascia lo spettatore con una forte sensazione di irrisolutezza e con la certezza che questo materiale, così carico di simbolismi ed evocazioni, avrebbe potuto dare molto di più nelle mani di Marco Bellocchio, che c'è e si percepisce, ma non alla regia.

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