venerdì 14 luglio 2023

Rapito (Bellocchio 2023)

Marco Bellocchio racconta un episodio di cronaca che infiammò l'Italia e l'intera Europa, in un film bellissimo, di grande intensità emotiva, girato con la solita maestria e che permette di affrontare temi delicati sul piano storico, religioso, politico e ideologico. Il tutto confezionato dalla notevole scenografia di Andrea Castorina, coadiuvata dagli effetti speciali di Rodolfo Migliari; dalla musica - a tratti dai toni herrmanniani - di Fabio Massimo Capogrosso; e dalla coinvolgente fotografia di Francesco Di Giacomo.
Lo spunto, per Bellocchio, è stato il libro di Vittorio Messori, Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX. Il memoriale inedito del protagonista del «caso Mortara» (Mondadori, 2005), che pubblica il testo scritto dallo stesso Edgardo Mortara, in piena difesa della posizione pontificia; e poi quello di Daniele Scalise, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa (Mondadori, 1997), a cui si è liberamente ispirato. Va ricordato, inoltre, che sulla storia era già Spielberg (leggi) e che il regista piacentino ha iniziato il suo progetto quando ha saputo, durante le riprese de Il traditore, che il cineasta americano lo aveva abbandonato (trailer).
Bologna, 1858. La famiglia Mortara viene sconvolta dall'interessamento della Chiesa nei confronti del loro sestogenito, Edgardo (Enea Sala/Leonardo Maltese), nato nel 1851 e cresciuto nella religione ebraica come tutti gli altri membri del loro nucleo. Sembra che Anna Morisi, una ragazza del contado già a loro servizio, abbia battezzato il bimbo quando era ancora nella culla, al fine di evitargli, poiché malato, l'ingresso al Limbo in caso di morte. Questo basta per renderlo cristiano - un gesto illecito ma al tempo stesso un battesimo valido per il diritto canonico -, a dispetto della sua educazione, della sua formazione, della sua famiglia (trailer).
A scatenare l'assurdo quanto impari braccio di ferro tra lo Stato Pontificio - di cui Bologna al tempo era parte - e i Mortara, il domenicano Feletti (Fabrizio Gifuni), a capo del Sant'Uffizio felsineo, a cui non sembra vero di poter avere un cavillo per strappare un'anima agli ebrei. La scena tra il padre di Edgardo, Salomone Mortara, detto Momolo (Fausto Russo Alesi), e monsignor Feletti, è da capogiro: l'uomo, convinto di un errore, si presenta in chiesa durante la funzione e attende che finisca per poter parlare con il temuto sacerdote, che però, si mostra implacabile oltre che sordo alle ragioni dell'uomo, concedendo solo altre ventiquattro ore prima di ordinare la sottrazione del bambino dalla loro casa.
La sequenza della denuncia e poi quella del "rapimento" di Edgardo, avvenuto sei anni dopo l'inizio della vicenda, sono trattati dalla regia e dalla sceneggiatura - scritta dal regista con Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli - con grande sensibilità: viene evidenziato, oltre l'incredulità dei genitori Salomone e Marianna (Barbara Ronchi), l'impaccio del maresciallo Lucidi (Bruno Cariello), costretto a far rispettare una legge priva di senso anche per lui, un momento che permette lunghe riflessioni sul senso delle regole a prescindere e sulla logica della disobbedienza civile, sempre d'attualità (tanto più che quest'anno il tema per l'esame delle scuole medie inferiori ha avuto proprio questo argomento). Non è un caso che Feletti, mentre timbra i suoi decreti con la ceralacca, pronunci scanditamente "tutto è stato fatto in piena regola", con buona pace della logica e del buon senso, ricordandoci che le regole troppo spesso nella storia sono stati mezzi coercitivi. La regia, peraltro, quando tutto cambierà con l'Unità d'Italia, sottolinea come la logica delle regole sarà identica seppur di segno opposto.
Marco Bellocchio e Diego Velazquez
Il funzionario regio che interroga il domenicano arrestato per rapimento, infatti, parlerà di applicazione delle regole e lo stesso Feletti, a processo - nonostante l'evidente corruzione attuata per spingere Anna Morisi al battesimo di Edgardo -, si difenderà con lo stesso concetto, un po' come avvenne a Norimberga e come se l'uomo nell'esercizio delle sue funzioni non facesse i conti con la propria coscienza... cosa che detta da un sacerdote, se possibile, appare ancora più assurda. Eseguire gli ordini, un problema di sempre, che fa istintivamente pensare ad Hannah Arendt e al suo immarcescibile "nessuno ha il diritto di obbedire".
La statua di Gregorio XIII di Alessandro Menganti
Bellocchio gira da par suo e una serie di inquadrature, complice l'ambientazione storica, sembrano dei dipinti. Partiamo dalla scena che fa da locandina al film: il piccolo Edgardo in braccio a Pio IX (Paolo Pierobon) è un'immagine agghiacciante e morbosa, che sintetizza la folle aria di vittoria di papa Mastai. Vederlo su quel trono color porpora e oro, però, fa istintivamente pensare ad un capolavoro di Diego Velazquez, il Ritratto di Innocenzo X Pamphilj (Roma, Galleria Doria Pamphilj, 1650). Alla mozzetta rossa, però, nel film a fare da contrappunto il bianco della veste del giovanissimo catecumeno e non la tunica del papa.
E poi gli interni, con i letti e le culle di casa Mortara, che sembrano presi da scene di genere del Seicento nord italiano e fiammingo; la partenza da Bologna, nella penombra, lungo il fiume, un'immagine degna di un notturno seicentesco.
Straordinaria una delle ultime scene del film, con uno split screen naturale, creato dal muro divisorio di due ambienti della casa: sulla sinistra Edgardo che ricorda la sua infanzia, dall'altra il capezzale della madre Marianna, ennesima e bellissima inquadratura.
Altro motivo della pellicola, il viaggio lungo i territori dello Stato Pontificio che conduce Edgardo dall'Emilia alle Marche e poi a Roma. A Senigallia, città natale di papa Pio IX, l'ingresso nel duomo, dove le suore spiegano al ragazzino la scena del Battesimo di Cristo e la Crocifissione.
Più avanti il dissidio interno di Edgardo, diviso dai precetti delle due religioni, lo porterà in sogno davanti a un crocifisso ligneo, da cui toglierà i tre chiodi della Passione - segno del senso di colpa instillato -, permettendo a Cristo, che nel frattempo ha preso vita, di scendere dalla croce e togliersi anche la corona di spine, in un'immagine che sembra mutuata dal capolavoro di Martin Scorsese, L'ultima tentazione di Cristo (1988). La madre consegna a Edgardo la mezuzah, contenente due passi del Deuteronomio (6:4-9; 11:13-21), solitamente posta alla destra dello stipite delle porte d'ingresso nelle case ebraiche, ma che il bambino terrà con sé come simbolo della casa d'origine. A conferma della grande confusione generata dal rapimento e dalla forzosa educazione cristiana, Edgardo tiene al collo anche il crocifisso, quello che definisce un "portafortuna" quando proprio Marianna gli chiede perché.
Significativa anche la sequenza, girata attraverso il montaggio alternato, che mostra da un lato una messa cattolica in Vaticano e dall'altro la celebrazione dello sabbath in casa Mortara: il contrasto è totale, tra la ricchezza e la pomposità della prima e l'intima religiosità familiare della seconda.
L'arrivo di Edgardo a Roma, il 28 giugno 1858, è scenograficamente eccezionale, poiché vediamo la città che fu e che conosciamo da dipinti e incisioni precedenti ai lavori per i muraglioni di contenimento del Tevere: la barca con i religiosi ed Edgardo arriva da nord, sulla sinistra una serie di palazzi sul fiume e sulla destra la mole di Castel Sant'Angelo, la cupola di San Pietro sullo sfondo e il ponte Elio a collegare i due versanti della città.
Sono tante altre, però, le location riconoscibili, a partire da piazza Maggiore a Bologna, di cui più volte vediamo san Petronio come fondale di scena, dietro ai personaggi, o la Fontana del Nettuno di Giambologna. Sulla stessa piazza sorge anche palazzo d'Accursio, la sede del comune in cui sono girate alcune sequenze e dalla cui facciata viene fatta cadere la statua del papa bolognese Gregorio XIII Boncompagni quando, nel 1859, le rivolte risorgimentali spingono la città all'indipendenza dal potere pontificio.
È fuori Bologna, anche se nella finzione è al suo interno (anche grazie al fondale inserito nel film), un luogo importante nell'economia della vicenda narrata: la piazza porticata in cui è casa Mortara è la piazza Minozzi a Roccabianca (Parma), recentemente utilizzata anche da Gianni Amelio per il suo Il signore delle formiche (2022).
Gli interni del Vaticano, come accade spesso, sono ambientati a Palazzo Farnese a Caprarola. Se ne riconoscono la Sala del Mappamondo, in cui è lo studio del pontefice; la Sala dei Fasti Farnesiani, con gli affreschi di Taddeo Zuccari, di cui si vede bene Entrata a Parigi di Francesco I, Carlo V e Alessandro Farnese; ma soprattutto la cappella, affrescata da Federico Zuccari, in cui papa Mastai effettua la cerimonia di conferma del battesimo per Edgardo, e di cui vediamo il Cristo trasportato al sepolcro dagli angeli fiancheggiato dalla serie degli Apostoli.
E poi, la sinagoga di Sabbioneta, la chiesa di San Barnaba a Modena, mentre a Roma è stato utilizzato anche l'oratorio dei Filippini, in cui è stato ricostruito il refettorio di San Pietro in Vincoli. Bella ed evocativa anche la ricostruzione della Scala Santa, che il pontefice sale nei giorni antecedenti alla caduta per mano dei bersaglieri, che vediamo entrare dalla celebre breccia.
Il rapimento di Edgardo Mortara, (M.D. Oppenheim, 1862)
Nella città del papa, Edgardo verrà educato per la futura carriera ecclesiastica insieme a vari coetanei provenienti dal ghetto ebraico, del quale vediamo il Portico d'Ottavia, centro nevralgico del serraglio voluto da Paolo IV Carafa nel 1555 (con la bolla Cum nimis absurdum), e la chiesa di Sant'Angelo in Pescheria addossata ad esso.
Uno dei compagni di Edgardo è un piccolo capolavoro del casting: Elia è una sorta di Aldo Fabrizi bambino, tutto occhi e labbra, a cui spettano linee di sceneggiatura di pragmatismo tipicamente romano. Un po' come il Lucignolo collodiano è quello già esperto della vita che dovrà vivere anche Edgardo, a cui consiglia di ripetere quello che gli chiedono i maestri, senza discutere e di accettare anche senza capire l'ostico latino.
Pio IX è delineato come un uomo dal temperamento vicino all'esaltazione, con i suoi disturbi - in una scena lo vediamo divincolarsi in preda all'epilessia sulla scala a chiocciola di Vignola, ancora nel palazzo farnesiano di Caprarola -, le sue idee reazionarie, condite di teocrazia, assolutismo e infallibilità ormai anacronistici. D'altronde pochi anni prima, Gregorio XVI, nell'enciclica Mirari vos (1832), aveva parlato di "delirio" rispetto alle moderne idee che propagandavano la volontà di "garantire a ciascuno la propria libertà di coscienza" (su questi aspetti si legga, in fondo a questa recensione, il puntuale articolo sul film di Massimo Firpo uscito su Il sole 24 ore lo scorso 2 luglio, dall'eloquente titolo Quel rapimento così poco mistico).
Papa Mastai sorride con un ghigno di sfida davanti ai libelli inglesi, francesi, belgi, americani, che lo irridono per il rapimento e lo trasformano letteralmente in una vecchia volpe. Risultano inutili i più miti consigli politici del segretario di Stato, il cardinale Giacomo Antonelli (Filippo Timi), tanto più le lettere che arrivano da ogni dove, compresa quelle di Napoleone III, imperatore di Francia, e di Lionel Rothschild, rampollo della grande famiglia di banchieri e primo ebreo eletto nel parlamento britannico. Le ansie del papa inseriscono nei suoi sogni una delle immagini più dure della satira antipapale, comparsa incisa sui giornali, ma persino messa in scena da un attore a Boston: degli ebrei lo sorprendono durante il sonno per circonciderlo di nascosto, al pari di quanto accaduto al piccolo Edgardo per farlo entrare nelle fila dei cristiani.
Il rapporto di Pio IX - beatificato da Giovanni Paolo II nel 2000 - col bambino è ai limiti della morbosità: il papa mostra nei suoi confronti un atteggiamento paterno inquietante, che l'interpretazione di Paolo Pierobon rende in maniera sopraffina. E, a proposito delle prove attoriali del film, sono altrettanto valide quelle di Fausto Russo Alesi (già splendido nel Cossiga di Esterno notte (Bellocchio 2022), di Barbara Ronchi e, soprattutto, quella di Fabrizio Gifuni, per chi scrive ancora una volta il migliore attore italiano per versatilità e capacità di immedesimazione.
Edgardo, una volta cresciuto, sarà un religioso cattolico a tutti gli effetti, ma la sua origine rimarrà sempre appena sotto la superficie: in tal senso la sequenza più impressionante è quella del corteo funebre del pontefice. Il carro procede lungo ponte Sant'Angelo, nella notte, illuminato dalle torce; il giovane protagonista è uno dei sacerdoti che lo seguono con trasporto emotivo ma. quando il popolo esplode urlando la volontà di gettare il corpo di Pio IX nel fiume, anche lui ha un accesso di ira che lo porta a colpire il vetro della carrozza e a gridare le stesse parole, trasfigurato da una rabbia che riassume tutte le sopraffazioni subite nella sua vita. Il vero Edgardo, però, è ormai quello che dopo la breccia di Porta Pia incontra uno dei fratelli, unitosi ai bersaglieri che entrano a Roma, e che, di fronte all'entusiasmo della vittoria, difende lo Stato Pontificio, a cui sente di appartenere: "sono padrone della mia vita", "il battesimo mi ha salvato", o che, peggio, tenta di battezzare la madre in punto di morte. E, infatti, nella realtà storica si dedicò per anni alla conversione degli ebrei, fino alla morte, che sopraggiunse a Liegi nel 1940.
Bellocchio ha precisato che il suo non è un film contro la Chiesa e che, nel girarlo, non ha avuto intenzioni politiche, ma ogni opinione è politica e, mi scuserà il regista, una pellicola che racconta un pezzo di storia oscurantista della Chiesa, ancorata all'antiebraismo di tradizione basso medievale e in cui Pio IX sembra tornare indietro agli anni della Controriforma, lo è, per fortuna, più che mai. Il cineasta di Bobbio, peraltro, ha persino scritto al pontefice per farglielo vedere: sarebbe bello che papa Francesco accetti la proposta e ne parli, ma chissà.
Chiuderei questa analisi con un'ultima suggestione pittorica che tanto dice della pellicola.
Marco Bellocchio e Annibale Carracci
Inevitabile, comunque la si pensi, che nel nostro immaginario culturale la figura di Marianna assurga al ruolo materno per antonomasia, quello di Maria di Nazareth, nonostante questo crei un certo straniamento in chi guarda, data la trama del film. Tale sensazione diventa decisamente più vivida nella drammatica sequenza in cui la mamma di Edgardo incontra suo figlio a Roma, in una sala del collegio in cui il ragazzo viene educato ai precetti cristiani: il gesto dell'abbraccio, con la donna in ginocchio e a braccia spalancate, è infatti praticamente sovrapponibile a quello di Maria nell'Assunzione della pala d'altare della cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo. Un'analogia voluta dal regista o una significativa casualità?


APPROFONDIMENTO 








Nessun commento:

Posta un commento