martedì 17 settembre 2024

Europa (Von Trier 1991)

Accompagnati dalla voce off di un'icona del cinema come Max Von Sydow, Europa di Lars Von Trier - terzo film della trilogia che comprende L'elemento del crimine (1984) ed Epidemic (1987) - ci avvolge come la più scomoda delle coperte, in un corto circuito temporale che non è dato solo dall'epoca della narrazione, l'immediato secondo dopoguerra nella Germania sconfitta e livorosa, ma anche dallo stile della pellicola, che rimanda ai noir bellici statunitensi dell'età dell'oro di Hollywood (trailer).
La penetrante voce dell'attore feticcio di Ingmar Bergman sembra, metacinematograficamente, aver portato il protagonista de Il settimo sigillo (1957) dall'altra parte della barricata: se in quel capolavoro era l'umano Antonius che giocava a scacchi con la Morte, qui è Dio o, meglio, la Morte stessa, che dà ordini a Leopold, conferendo all'intera pellicola un senso di predestinazione di stampo protestante, orizzonte religioso e filosofico in cui il cineasta danese è nato e si è formato, pur essendo ateo, prima di abbracciare il cattolicesimo nel 1995.
Leopold Kessler (Jean-Marc Barr) è un giovane statunitense di origine tedesca che arriva a Francoforte in treno - e i binari corrono veloci sotto lo sguardo fisso della mdp come la strada di Strade perdute di David Lynch (1997) -, dove lo zio (Ernst-Hugo Järegård), ufficiale tedesco, gli ha trovato lavoro come cuccettista per le ferrovie Zentropa, fondate nel 1912. Il nome, di fantasia, è quello che l'anno dopo il film prenderà, non a caso, la casa di produzione cinematografica fondata da Lars von Trier e dal produttore Peter Aalbæk Jensen.
Katharina in Europa ed Elisabeth in Persona
Non è il momento migliore per andare in Germania per un americano e gli occhi dei tedeschi si posano su Leopold con una certa circospezione, fatta eccezione per quelli di Katharina Hartmann (Barbara Sukowa), figlia del proprietario di Zentropa, che viaggia sempre in prima classe e inizia a flirtare col nuovo cuccettista.
Come una perfetta donna di un noir, Katharina unisce eros e thanatos, passione e mistero, e coinvolgerà Leopold in un complesso intrigo che coinvolge la famiglia Hartmann, i Werwolf il gruppo di partigiani tedeschi che combattono gli alleati e uccidono i traditori. 
A tal proposito, una delle immagini più forti è proprio quella dei tedeschi impiccati ai lati dei binari, con un cartello sul petto con la scritta "Werwolf",  che si vedono dai finestrini del treno.
Il volto della donna, invece, viene usato in una bellissima immagine che conferma l'influenza bergmaniana su von Trier (penso a Il volto, 1958, ma ancora di più a Persona, 1966 su tutti), in cui lo si vede ingrandito a rappresentare il pensiero di Leopold accovacciato e riflessivo in primo piano.  
La storia d'amore tra Leopold e Katharina è al centro di una trama fatta di spionaggio, omicidi, doppiogiochismi, che come in ogni noir che si rispetti contrapporrà i due secondo il topos dell'uomo innamorato e soggiogato e la donna razionale e malvagia, un rischio storicamente da scongiurare (non siamo lontani dal motivo moraleggiante di Fillide che cavalca Aristotele diffuso sin dal Medioevo). 
Il bianco e nero espressionista si interrompe solo in alcuni momenti e spesso per alcuni frammenti evidenziati nell'inquadratura: un volto, una maniglia o altri dettagli possono improvvisamente accendersi per uscire dall'anonimato del bianco e nero.
Von Trier, coaudiuvato dalla musica di Joachim Holbek - lo stesso di The kingdom (1994) e Le onde del destino (1996) -, gioca palesemente con i generi e con il cinema del passato, in una pellicola che è esercizio metacinematografico sin dalla voce narrante: noir ed espressionismo, cinema statunitense ed europeo sono continuamente mescolati nella trama e nei suoi colpi di scena, nel montaggio con ellissi e dissolvenze incrociate (una molto bella è quella che fonde il volto di Katharina e la testa della locomotiva), nelle composizioni delle immagini (su tutte un close up alla Sergio Leone degli occhi di Leopold, sotto ai quali vediamo correre il treno in orizzontale, con un netto cambio di inquadratura, di proporzioni e di direzione).
La mdp si muove molto, sale, scende verticalmente da un piano all'altro di casa Hartmann, guarda la scena da dietro le reti di recinzione o le inquadra attraverso i finestrini del treno da entrambi i lati, gira dall'alto attorno ai volti dei personaggi sdraiati, o in basso attorno al tavolo durante la cena in cui Leopold conosce l'intera famiglia Hartmann. Proprio la cena è una delle scene madri del film: allo stesso tavolo, oltre Leopold e Katharina, ci sono suo padre Max (Jørgen Reenberg), suo fratello Larry (Udo Kier), e poi un prete (Erik Mørk), un gruppo degno di un film di Buñuel.
La continua ambiguità dei personaggi viene acuita dalla presenza di un colonnello statunitense, Alexander Harris, che ha il compito di controllare i movimenti degli Hartmann e continua a chiedere di compilare un questionario al capofamiglia. Anche il disagio dello spettatore rispetto a quello che diventa un vero tormentone aumenta, quando scopriamo che come controllori dei questionari vengono designati degli ebrei. Questi, però, possono essere corrotti per far ottenere esiti positivi a chi ha ancora tangenze con l'ideologia nazista e trova sorprendente che tutto "all'improvviso è diventato un crimine", in assoluto la battuta più agghiacciante della pellicola.
Strizza l'occhio al passato anche il trenino che si muove nel grande plastico in soffitta, che Katharina mostra a Leopold e che diventa simbolo e terreno scenico esso stesso, con incidenti e rapporti sessuali consumati tra piccoli binari e colline di cartapesta...
Tra le sequenze più belle, infine, il Natale 1945 e l'immagine poetica e surreale della cattedrale di Monaco, la celebre Frauenkirche, innevata all'interno poiché priva del tetto a causa dei bombardamenti alleati.
Il film è formalmente notevole - non a caso a Cannes vinse il Premio della giuria, il Premio per il contributo artistico e il Grand Prix tecnico -, ma resta un po' freddo (questo non sorprende dato l'autore) e, nonostante l'eccellente utilizzo della mdp, appare molto accademico e lontano dalle opere migliori del regista danese, di cui però costituisce un utile premessa per comprenderne le future evoluzioni.

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