lunedì 18 ottobre 2021

L'uomo che vendette la sua pelle (Ben Hania 2020)

Tra 2006 e 2008 l'artista belga Wim Delvoye realizzò Tim, opera d'arte controversa consistente in un grande tatuaggio sulla schiena dello svizzero Tim Steiner, il cui corpo divenne di fatto il supporto, la tela del dipinto. L'"opera" è stata poi venduta per 150.000 euro al collezionista tedesco Rik Reinking e, quando Steiner morirà, la sua pelle verrà prelevata dalla sua schiena e incorniciata. 
La regista tunisina Kaouther Ben Hania, che vide l'opera in mostra al Louvre nel 2012, trae ispirazione da tutto questo e gira un ottimo film, alternando prospettive centrali, inquadrature fuori fuoco da cui emergono le figure, surcadrage continui che incorniciano i personaggi e aggiungendo alla storia una valenza politica e una tematica amorosa assenti nella vicenda originale (trailer).
La pellicola, che ha regalato alla Tunisia la sua prima candidatura all'Oscar per il migliore film straniero, fonde infatti il tema artistico riguardante la natura stessa dell'opera d'arte a quello dei rifugiati e della difficile situazione del Medio Oriente, contrapponendo in maniera inequivocabile la facilità della circolazione della merce rispetto a quella degli uomini, tanto più che il tatuaggio realizzato per il film è proprio un Visto Schengen invece di una Madonna, teschio, animali e fiori in stile messicano del soggetto originario. 
Una bellissima inquadratura in un ambiente di un bianco accecante e con una simmetria da fare invidia a Kubrick e Wes Anderson apre il film, che narra appunto la storia di 
Sam Ali (Yahya Mahayni), ragazzo siriano innamorato di Abeer (Dea Liane), che a causa di un momento di entusiasmo non pesa le parole e si ritrova in carcere. Per evitare altri guai, da rifugiato in Libano, accetterà la proposta di un artista contemporaneo, Jeffrey Godefroi (Koen De Bouw), e della sua collaboratrice Soraya (Monica Bellucci), che decidono di farne un'opera d'arte umana e portarlo a Bruxelles, dove vive anche Abeer, nel frattempo diventata moglie di Ziad (Saad Lostan), dipendente del ministero degli affari esteri siriano.
Ben Hania gioca con le immagini e usa la mdp con classe: non solo le inquadrature attraverso le sbarre, le porte della metro, gli oblò di alcune finestre, ma per esempio inganna la polizia diegeticamente e lo spettatore extradiegeticamente, nascondendo Sam, ormai ricercato, all'interno di un camioncino che trasporta merci, facendo indossare al protagonista una camicia della stessa stoffa dei sacchi usati per il carico. Sam è rannicchiato e non mostra la testa, piegata in avanti, proprio come dovrà fare quando, una volta tatuato, sarà esposto nelle sale dei musei.
Tra i colpi ad effetto però c'è tanto altro, a partire da Sam che si aggira in vestaglia di raso blu tra le sale del museo, novello Jude Law di The Young Pope, e che passando davanti ad una cornice con specchio si prefigura come opera senza tempo, dipinto umano che sarà. Ed è proprio nello stesso specchio, ma in un'altra sequenza del film, che la regista sembra omaggiare Vertigo (1958), mostrando Dea Liane con un'acconciatura con una crocchia - mai adottata in altre scene - che non può non far pensare a quella della Madeleine-Kim Novak del capolavoro hitchcockiano, che si rivelava agli occhi di Scottie-James Stewart proprio all'interno di un museo, lì quello del California Palace of the Legion of Honor di San Francisco, mentre qui siamo nei 
Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles, di cui, tra gli altri, si riconoscono il camminamento del salone principale e la sala delle nature morte.
E gli altisonanti spazi museali ottocenteschi permettono a Ben Hania di mettere in relazione Sam con i tanti dipinti della collezione permanente, soprattutto con le nature morte fiamminghe, con cui il protagonista si ritrova fatalmente a confrontarsi, ma anche con un'Annunciazione rinascimentale fiamminga, due tavole monocrome che durante un'asta precedono Sam, e che, nell'ennesima significativa inquadratura, ne incorniciano il volto, a farne, per un momento, pannello centrale di un trittico davvero sui generis
Ovviamente c'è spazio anche per l'arte contemporanea: Ziad passa un brutto quarto d'ora perché distrugge "un Ferri", come dichiara il direttore del museo, ed è un altro dipinto di Roberto Ferri, Achille, a campeggiare dietro il letto della camera di Sam, 
Roberto Ferri, Achille, 2017
una delle tipiche ed inquietanti creature nude e crepuscolari del pittore tarantinoPer la cronaca, Sam viene venduto a cinque milioni di euro dal collezionista Christian Waltz, che fanno sembrare briciole i 150 mila spesi da Reinking per Tim Steiner.
La sceneggiatura, essenziale e a firma della stessa regista, ha diversi momenti ironici, come quello in cui Godefroy promette a Sam di garantirgli un tappeto volante per andare in Europa e si sente rispondere "credi di essere un genio?", per poi replicare "no, ma a volte penso di essere Mefistofele"; oppure quello nel quale un amico di Sam gli dice che avrebbe preferito si facesse tatuare Pinocchio sul pene "per vedere crescergli il naso". A strappare sorrisi, oltre a quelli involontari dell'interpretazione di Monica Bellucci e di un brufolo che su una pelle così importante viene affrontato come una grottesca tragedia, ci pensano anche una serie di espressioni di Sam, che ha nella mimica facciale un vero lasciapassare per la comicità.
Passando dal sorriso al disappunto, dall'amore alla rabbia, dalla paura di essere ricercato alla presunzione della star che chiede caviale con il servizio in camera di un lussuoso hotel, Mahayni dimostra di essere un ottimo interprete e di aver meritato il Premio Orizzonti come miglior attore al Festival di Venezia del 2020. 
Sam accetta di diventare un oggetto per migliorare la propria condizione e per raggiungere la sua amata; rifiuta di cavalcare la protesta di un'associazione che ne sottolinea lo sfruttamento come rifugiato; non vuole essere strumentalizzato, in fondo non ha interesse per quella battaglia più grande di lui, che lo tocca - e solo allora si rende conto di quanto sia stato egoista - nelle videotelefonate con la madre, rimasta in Siria come la sorella, che pure lo ha aiutato nel momento di massima difficoltà. 
Infine le musiche scelte da Amine Bouhafa, che alterna pezzi mediorientali moderni, come la coinvolgente Stil di Acid Arab, a brani classici, come Recondita armonia, celebre aria della Tosca di Puccini, in cui Cavaradossi paragona proprio un'opera d'arte alla sua amata, o Filiae maestae Jerusalem di Vivaldi suonata da Philippe Jaroussky, introduzione del perduto Miserere del compositore veneziano.
Tanta maniera, bella maniera, in un film da non perdere! 

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