sabato 9 dicembre 2017

Happy End (Haneke 2017)

Eve (Fantine Harduin) è una tredicenne che merita di entrare nella galleria dei personaggi disturbanti della filmografia hanekiana... La giovanissima ragazza vive con la madre, Nathalie (Aurélia Petit), e sembra passare il tempo riprendendo e commentando con il proprio cellulare quello che avviene in casa. Le prime immagini del film (trailer) ci mostrano attraverso il piccolo schermo del telefono la particolare attività metacinematografica di Eve, che commenta i movimenti della madre prima di andare a dormire, criticandola ferocemente e giustificando il padre Thomas (Mathieu Kassovits) che le ha lasciate anni prima costruendosi una seconda famiglia con la nuova compagna, Anais (Laura Verlinden); riprende l'agonia del proprio criceto cui ha somministrato una dose di pasticche antidepressive e poi Nathalie stessa, svenuta per il medesimo trattamento.
Dopo la morte della madre, Eve si trasferisce a casa di Thomas e Anais, dove spesso, e la cosa non può non far tremare, fa da baby sitter al fratellastro neonato... proprio mentre lo osserva, riprendendo tutto con l'immancabile cellulare, si lascia andare ad una riflessione sulla morte di suo fratello maggiore, avvenuta quando avevano rispettivamente sette e cinque anni, sottolineando che stavolta sarà lei la più grande, ennesimo dettaglio inquietante lasciato in sospeso dal regista.
Thomas è un chirurgo, membro di una famiglia molto ricca di Calais, i Laurent: suo padre è Georges (Jean-Louis Trintignant); sua sorella Anne (Isabelle Huppert), imprenditrice che gestisce l'azienda di famiglia, nonché madre single di Pierre (Franz Rogowski), con cui nonostante l'età si comporta come fosse un bambino, un atteggiamento che sembra aver causato ingenti danni sul ragazzo, facilmente irascibile, dedito all'alcol, privo di interessi e non in grado di affiancare la madre nel lavoro. 
Questa vicenda, però, non è l'unica a dimostrare che l'alta borghesia francese è la stessa cui ci ha abituato per decenni Claude Chabrol, formalmente perfetta ma con contraddizioni enormi al suo interno: Thomas, infatti, è incapace di fare il padre ("non sono più abituato ad avere una figlia") e ha un'amante musicista, Claire, con cui si scambia roventi mail e chat che non lasciano nulla all'immaginazione, che scendono nei dettagli più intimi e realistici, secondo una libertà espressiva che denota la forte personalità della violoncellista (quale altro strumento musicale poteva chiudere il cerchio di una donna così disinibita?).
Come nei film del maestro francese, nessuno dei personaggi, fatta eccezione per il neonato figlio di Anais e Thomas, è privo di responsabilità verso la difficile situazione che si respira dietro l'apparente perfezione della famiglia. Eve appare educata e silenziosa, ma chissà, è stata proprio lei a causare la morte della madre come fatto con il criceto? Thomas è un traditore seriale, come nota proprio sua figlia che, dopo averlo visto comportarsi da adolescente durante una telefonata, gli chiede se ama davvero Anais e alla risposta affermativa, gli ricorda, con un'ironia inespressa, che diceva lo stesso quando stava con sua madre, Nathalie. Quest'ultima è colpevole per la sua passività, e la netta sensazione è che abbia sposato il benessere garantito dall'ingresso nella famiglia Laurent piuttosto che Thomas, con cui ha poco più che rapporti formali.
Di Anne e Pierre si è già detto, ma meritano una menzione i loro continui scontri e battibecchi che culminano nella sequenza del ricevimento per il fidanzamento di Anne con un imprenditore inglese (Toby Jones). Qui Pierre, ubriaco e contrario a quell'unione e al perbenismo della sua famiglia, si presenta con un gruppo di extracomunitari membri di quella "giungla di Calais", l'accampamento di rifugiati che tra 2015 e 2016 fece tappa nella città francese per poi approdare nel Regno Unito, creando scompiglio tra gli invitati.
Il rapporto tra Thomas e Eve non è migliore, e che le continue inquietudini all'interno della famiglia coinvolgano tutte le generazioni viene confermato dai comportamenti del pater familias Georges. Quest'ultimo, infatti, è un ottantacinquenne ossessionato dall'idea di suicidarsi per mettere fine ad una vita che non gli offre più alcuna felicità. Racconta di aver provato a coinvolgere nel "progetto" il figlio pusillanime, che si è rifiutato; tenta di morire nottetempo alla guida della propria auto che fa schiantare contro un albero, incidente che però peggiorerà solamente la sua condizione, costringendolo su una sedia a rotelle; proverà ancora invano con un gruppo di extracomunitari incontrati in strada, con il barbiere Marcel e anche con l'ultima arrivata, la piccola Eve...
Questa macabra gag è uno degli indizi che rivelano come la pellicola di Michael Haneke in realtà si tratti di una commedia e il lieto fine del titolo ne è la conferma. Certo, si tratta di Haneke, e la commedia è fatta di omicidi sottaciuti, suicidi fallimentari e qualche battuta folgorante e cinica, come quella con cui Anne fa gli auguri al padre per il suo compleanno sottolineando che "l'erba cattiva non muore mai".
Georges, inoltre, come ennesima firma hanekiana, è vedovo di una donna che ha aiutato a morire, come racconta alla nipote in un palese ammiccamento nei confronti dello spettatore con cui rimanda alla trama del magnifico Amour, in cui Trintignant interpretava il personaggio con lo stesso nome, che si occupava della moglie Anne fino alla fine. La figlia della coppia anche allora era impersonata da Isabelle Huppert, ma le consonanze si interrompono qui, poiché la donna che lì era Eve, nome ora scelto per la nipote adolescente, stavolta si chiama Anne, come sua madre nel film precedente.
Happy End, letto in quest'ottica, completa il dittico sull'eutanasia e sul rapporto tra l'amore e l'appagamento del desiderio di morte, considerato dal regista austriaco uno dei diritti inalienabili del libero arbitrio umano. I due film sono imparagonabili per qualità, ma è indubbio che siano in forte relazione... dramma e commedia, riuscita e fallimento, pace e travaglio, sono i diversi lati della stessa medaglia. La morte, d'altronde, come sosteneva Alfred Hitchcock, non è cosa facile da ottenere e per questo nelle scene dei suoi film sottolineava spesso la fatica dell'atto... Georges in questo senso è un personaggio comicamente hitchcockiano, che non riesce a portare a termine l'omicidio nemmeno con se stesso.
Il maestro del brivido, inoltre, avrebbe sicuramente apprezzato anche la più bella battuta del film, che parafrasa Bertand Russell e che Haneke affida a un invitato anonimo durante la sequenza del ricevimento: "un teologo è uno che entra in una stanza buia con le pareti nere e tenta di trovare un gatto nero che non c'è".
Probabilmente un Haneke minore, ma senza dubbio un Haneke!

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