lunedì 6 novembre 2017

Blade Runner 2049 (Villeneuve 2017)

Denis Villeneuve si trova splendidamente a suo agio nella fantascienza: lo aveva dimostrato con Arrival (2016) e lo conferma con il sequel di Blade Runner (R. Scott 1982). Accostarsi ad un mostro sacro che ha fatto epoca ed è entrato nell'immaginario collettivo costituiva un grande rischio, ma il regista canadese ha superato brillantemente la prova, mettendosi in scia del capolavoro originario, regalando allo spettatore un altro bellissimo neo noir e facendo respirare allo spettatore la stessa atmosfera di allora. Los Angeles è sempre piovosa, anche se più grande, oggi la sua discarica è a San Diego; il quartiere dei ristoranti è dominato dal finger food orientale e tra le strade della città il protagonista si aggira stancamente, privo di entusiasmo, un uomo solitario che trova la sua dimensione all'interno delle mura domestiche, proprio come accadeva a Deckard. Persino la pubblicità della Panam (nella realtà fallita nel 1991) lampeggia sulla sommità di un palazzo come un tempo.
A completare il quadro, la musica di Hans Zimmer e di Benjamin Wallfisch, che recuperano i motivi indimenticati composti da Vangelis, li rivisitano e ad essi ne aggiungono altri con cui ci accompagnano per la desolzione di questa California distopica (ascolta la colonna sonora).
Dal novembre del 2019 sono passati trent'anni. La Tyrrell Corporation è fallita nel 2020 ed è stata rilevata dal potente Niander Wallace (Jared Leto), che ha prodotto nuovi modelli di replicanti - dai Nexus 6 siamo ora ai Nexus 8 - da inviare soprattutto nelle colonie extramondo. K (Ryan Gosling) è uno di questi e il suo compito è quello di "ritirare" i modelli più vecchi: a guidarlo nella ricerca c'è il tenente Joshi, a cui lui si rivolge con un semplice Madame (Robin Wright).
Wallace, che utilizza uno dei suoi androidiLuv (Sylvia Hoeks), come tuttofare, è in preda al delirio di onnipotenza ("creiamo angeli al servizio della civiltà"), ma non sarà soddisfatto finché non riuscirà ad ottenere che due replicanti possano riprodursi, cosa che a quanto pare era riuscita a Tyrrell anni prima, generando quello che lui chiama "l'angelo perfetto", frutto dell'unione tra Deckard e Rachael... "Dio si ricordò di Rachele e la rese fertile" (Gen. 30, 22).
Di quell'epoca, però, in pochi sanno qualcosa, a causa di un blackout che anni prima in dieci giorni ha cancellato tutti i dati accumulati nel tempo. Questo avvenimento è l'espediente narrativo che rende lo spettatore hitchcockianamente più edotto degli stessi personaggi e così, quando in archivio viene trovato un frammento della registrazione del test fatto da Deckard a Rachael trent'anni prima, solo chi è in sala sa bene di cosa si tratti a differenza di chi, nello schermo, brancola nel buio...
Il lato cupo, esistenzialista e sentimentale dei replicanti è lo stesso del primo film e lo dimostra sin dalla prima sequenza, girata come l'inizio di un western, con l'incontro in una casa nel deserto tra il cacciatore e uno dei cacciati, un vecchio androide che cucina vermi come in un film di quel genere cuocerebbe fagioli. In quel nulla lo stesso protagonista si emoziona per la vista di un fiore, l'unico elemento colorato nel grigiore circostante, un'eccezione che gli scatena pensieri e riflessioni accresciuti dalla lettura della data 6/10/21 sulla corteccia di un albero...
K non solo svolge lo stesso compito svolto da Deckard trent'anni prima, ma come lui è un misantropo con difficili rapporti con le donne, tematica autobiografica molto cara a Philip Dick, a cui inevitabilmente guardano gli sceneggiatori Hampton Fancher e Michael Green.
Nel 2049, però, le relazioni sono facilitate da un software di realtà virtuale che permette di avere una donna con cui parlare, condividere quanto fatto durante la giornata e tanto altro... come non pensare ad un'evoluzione del sistema operativo di Lei (Jonze 2013), che si limitava alla sola voce? Il programma, prodotto da Wallace, funziona ma ha bisogno di una connessione stabile e, ironia della sorte, K viene interrotto da qualche imprevisto tecnico ogni volta che avvicina o sta per baciare il suo bellissimo ologramma Joi (Ana Celia de Armas Caso). Fatalmente il sesso tra i due sarà possibile solo grazie alle premure della ragazza virtuale che assolderà Mariette (Mackenzie Davis), donna una in carne ed ossa, con cui fondere la propria immagine, "sincronizzarsi" e offrire un corpo a K. Joi, peraltro, sceglie una ragazza che aveva tentato di flirtare con lo schivo K, dimostrando quanto il sistema operativo sia utile anche ad interpretare i voleri del proprio fruitore e a perseguirli al suo posto.
Joi è perfetta, la sua immagine non solo è affascinante ed esteticamente irresistibile, ma garantisce a K un istantaneo relax, sin dal motivo della notifica della Wallace corporation con l'incipit di Pierino e il lupo di Prokofiev (ascolta). Ne consegue che il primo gesto del cacciatore di replicanti al rientro in casa dopo lunghe giornate di lavoro non può che essere quello di prendere il telecomando e accendere il programma, che gli regala sottofondi musicali di Frank Sinatra e continue modifiche del proprio abbigliamento fino ad assicurargli quello che gli piace di più.

Dal punto di vista visivo il film è magnifico, e a questo contribuisce in maniera determinante la fotografia di Roger Deakins. La scenografia, inoltre, non solo restituisce le atmosfere ideate da Ridley Scott nel 1982, ma va persino oltre con esterni che si estendono a perdita d'occhio, come il deserto di una Las Vegas post-apocalittica in cui sono resti di statue giganti che ricordano un'epoca ormai tramontata, come accadeva a Charlton Heston con la Statua della Libertà sulla spiaggia de Il pianeta delle scimmie (Schaffner 1968). I grandi spazi caratterizzano anche gli interni, sia dell'albergo abbandonato in cui vive Rick Deckard, sia soprattutto di quella che potremmo definire la "zona Wallace", caratterizzata da tonalità gialle rese ancora più brillanti dall'acqua che riverbera sulle pareti. La piattaforma galleggiante su cui avviene l'incontro tra il vecchio Deckard e Wallace è uno di quei luoghi cinematografici che restano nella memoria, e proprio qui avviene l'apparizione di Rachael che Villeneuve ha ottenuto attraverso una complessa tecnica di "digital de-aging" che gli ha permesso di riportare Sean Young, oggi cinquantottenne, a quando ne aveva ventitré. Vederla emergere dal buio e camminare su quei gradini, bellissima come allora, è uno dei momenti più emozionanti e metacinematografici del film: una donna che visse due volte allo stato puro, mentre Harrison Ford è incredulo come lo Scottie di James Stewart quando vede uscire dal bagno la meravigliosa Kim Novak-Judy-Madeleine.
Tra le ottime scelte per le location del film, si segnala, infine, il luogo in cui K incontra un gruppo di replicanti militanti nella resistenza, il cui slogan è "più umani degli umani",: l'ambiente sotterraneo sostenuto da colonne e dominato dall'acqua ricorda la Basilica Cisterna di Istanbul. Qui la loro guida, una donna senza un occhio, gli precisa che "morire per la giusta causa è la cosa più umana che possiamo fare". 
Blade Runner 2049, così come il suo illustre predecessore non è un film di azione, ma filosofico e cerebrale. Uno dei suoi temi portanti è quello della riproduzione e della riproducibilità, di cui sono una manifestazione non solo i replicanti, ma anche K rispetto a Deckard, Rachael, come visto, rispetto a se stessa, gli ologrammi di Sinatra, Elvis Presley e Marylin che compaiono in futuristici juke-box (vicino a quello dove compare The Voice, ci sono anche un gruppo di dipinti tra cui spicca il Tondo Doni michelangiolesco) e su palchi che si animano improvvisamente, e soprattutto Joi, essere virtuale per eccellenza, fruibile da tutti, come dimostra la sensazionale sequenza della pubblicità tridimensionale che la mostra come un gigante luminoso che si china per interagire con chi la osserva, cosicché K si ritrova a vivere la stessa esperienza che quasi cinquant'anni fa viveva Peppino De Filippo con Anita Ekberg che passeggiava per le strade dell'EUR ne Le tentazioni del dottor Antonio in Boccaccio '70 (Fellini 1970).
Nel film di Villeneuve, però, di riferimenti cinematografici e letterari ce ne sono molti altri, dal nome K, kafkiano per eccellenza e ideale per un personaggio che dall'inizio alla fine del film non è mai realmente in grado di capire cosa stia succedendo...
Il regista utilizza anche la citazione ironica, mostrando per un paio di volte Ryan Gosling che spinge i tasti di un pianoforte, evidente allusione al suo ruolo in La la land (Chazelle 2016). Un discorso particolare merita, inoltre, il tema del ricordo, della memoria, proustianamente simboleggiato da un oggetto... se nel primo film l'origami dell'unicorno era l'elemento che accertava la natura androide di Deckard (anche in questo secondo episodio, peraltro, Gaff interpretato da Edward James Olmos compare con l'origami), stavolta a svolgere il ruolo della Rosebud di Orson Welles c'è un cavallino di legno, innestato nei ricordi artificiali di K., e per aggiungere carne al fuoco, Deckard pronuncia la frase de L'isola del tesoro di Stevenson "non avresti per caso un pezzo di formaggio?"
All'innesto dei ricordi nei replicanti è dedicata un'altra significativa sequenza: K, durante le sue ricerche, conosce una "sceneggiatrice di ricordi" che lavora per Wallace la quale giustifica il proprio talento con la necessità immaginifica cui l'ha costretta l'assenza di difese immunitarie con cui è nata e che la costringe da sempre a vivere sotto una cappa di vetro.
Quel personaggio ha un ruolo ben più grande di quello che gli viene riservato... tutto lascia presupporre, quindi, che verrà girato un altro episodio di Blade Runner...

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