Darren Aronosky ha creato un horror il cui aspetto allucinatorio più che essere funzionale alla narrazione appare fine a se stesso... e il pubblico, dopo la netta spaccatura della critica al festival del cinema di Venezia, lo sta trattando con una freddezza inequivocabile. Dopo il terribile Noah (2014), siamo di fronte ad un altro prodotto lontano dall'essere considerabile sufficiente (trailer).
Un film con rimandi cinematografici e biblici che farebbero ben sperare, ma che invece risultano inutili e sommersi da un nonsense che prevale sistematicamente e rende tutto davvero complicato da digerire. Un cast d'altissimo livello e che infatti non sfigura, Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Richard Harris e Michelle Pfeiffer sono bravissimi, ma il loro agitarsi e recitare sempre sopra le righe non migliora le cose. I primi due interpretano la coppia protagonista, costituita da uno scrittore in crisi d'ispirazione e da una moglie molto più giovane di lui che si sta dedicando da tempo a sistemare la splendida casa di campagna in cui vivono, già devastata da un incendio.
L'arrivo dell'altra coppia rompe un equilibrio già precario tra i due, e l'amore del poeta-Bardem per i suoi fan, di cui tollera una crescente invadenza lasciando incredula la giovane moglie, col tempo diventerà patologico, quella che sembra la semplice ospitalità data a due persone diventerà ben altro...
La scelta di non dare nomi ai personaggi conferisce alla trama un che di onirico, ma l'assenza onomastica oltre a complicare i dialoghi (e le recensioni) non sembra avere motivazioni che vadano oltre il vezzo. La mdp gira in continuazione, un movimento che risulta significativo se usato in momenti specifici, ma utilizzato in maniera sistematica perde di significato.
L'invadenza è uno dei temi portanti della pellicola: il personaggio di Richard Harris ha una foto del poeta interpretato da Bardem nel bagaglio; la moglie è ancora più invadente con la giovane padrona di casa, con cui dà per scontata una confidenza che non ha che le permette di dare consigli sulla vita sessuale e sulla biancheria intima da utilizzare; gli "invitati", una volta diventati un numero incontrollabile, occupano la camera da letto dei protagonisti, distruggono la cucina, rubano feticisticamente tutto ciò che riguarda il loro idolo.
I dubbi sulla sua relazione, instillati dal personaggio interpretato da Michelle Pfeiffer, alla fine attecchiranno sulla ragazza che perderà l'equilibrio urlando contro il marito "tu pensi solo a te", "tu parli di volere dei figli ma non riesci nemmeno a scoparmi", segno del baratro che si è ormai aperto tra i due.
Aronofsky, scegliendo un soggetto da horror psicologico a tema maternità, non può non rimandare al capolavoro assoluto del genere, Rosemary's Baby (Polanski 1968): la moglie del poeta, così come Mia Farrow, prende una strana medicina nei momenti di massimo stress; la sequenza in cui la folla di fan invasati prende il neonato che giustifica il titolo del film ricorda molto da vicino quella in cui la stessa Rosemary Woodhouse si vede assalire da tutti gli invitati che percepisce come pericolosi mostri appartenenti ad una setta; come nel celebre precedente non sapremo mai veramente se si tratta di sogno o realtà, ma sia chiaro, di Rosemary's Baby il film del regista newyorchese non ha nulla se non qualche richiamo formale.
Allo stesso modo, la cultura ebraica del regista in Madre! è ravvisabile nella scelta di evidenti motivi biblici, in cui rientra la coppia protagonista - Adamo ed Eva che perdono il loro equilibrio a causa di fattori esterni che svolgono la funzione del serpente satanico della Genesi -, ma soprattutto lo scontro tra fratelli, i figli della coppia ospite, che senza nemmeno presentarsi ai padroni di casa si ritrovano a lottare senza esclusione di colpi fino alle più estreme conseguenze come novelli Caino e Abele, un'associazione ancora più palese quando uno dei due giustifica il suo gesto con un significativo "hanno sempre voluto più bene a lui".
C'è spazio anche per evocare il diluvio universale, prosaicamente causato dalla rottura delle tubature e per una citazione dell'immaginario di David Cronenberg, a cui non si può non pensare quando vediamo che una macchia di sangue sul pavimento diventa un tutt'uno organico con le fibre del legno, una sorta di 'nuova carne', tema portante di gran parte della filmografia del cineasta canadese. E, infine, il poeta privo di ispirazione interpretato da Bardem che mentre la moglie è in lacrime per la situazione urla "cerco solo di portare un po' di vita in questa casa [...] di aprire la porta a nuova gente, a nuove idee", non può non far pensare al Jack Torrance di Shining (Kubrick 1980).
Mai come in questo caso non bastano le sole citazioni a rendere il film convincente e, anzi, risultano sprecate in una storia che non riesce ad andare oltre un delirio visivo che aggiunge elementi su elementi, un horror vacui costante la cui struttura perfettamente ciclica è una coazione a ripetere fortunatamente arrestata dalla scritta 'fine'...
I dubbi sulla sua relazione, instillati dal personaggio interpretato da Michelle Pfeiffer, alla fine attecchiranno sulla ragazza che perderà l'equilibrio urlando contro il marito "tu pensi solo a te", "tu parli di volere dei figli ma non riesci nemmeno a scoparmi", segno del baratro che si è ormai aperto tra i due.
Aronofsky, scegliendo un soggetto da horror psicologico a tema maternità, non può non rimandare al capolavoro assoluto del genere, Rosemary's Baby (Polanski 1968): la moglie del poeta, così come Mia Farrow, prende una strana medicina nei momenti di massimo stress; la sequenza in cui la folla di fan invasati prende il neonato che giustifica il titolo del film ricorda molto da vicino quella in cui la stessa Rosemary Woodhouse si vede assalire da tutti gli invitati che percepisce come pericolosi mostri appartenenti ad una setta; come nel celebre precedente non sapremo mai veramente se si tratta di sogno o realtà, ma sia chiaro, di Rosemary's Baby il film del regista newyorchese non ha nulla se non qualche richiamo formale.
Il poster-teaser del film, stile Biancaneve diffuso lo scorso 14 maggio, Festa della mamma |
C'è spazio anche per evocare il diluvio universale, prosaicamente causato dalla rottura delle tubature e per una citazione dell'immaginario di David Cronenberg, a cui non si può non pensare quando vediamo che una macchia di sangue sul pavimento diventa un tutt'uno organico con le fibre del legno, una sorta di 'nuova carne', tema portante di gran parte della filmografia del cineasta canadese. E, infine, il poeta privo di ispirazione interpretato da Bardem che mentre la moglie è in lacrime per la situazione urla "cerco solo di portare un po' di vita in questa casa [...] di aprire la porta a nuova gente, a nuove idee", non può non far pensare al Jack Torrance di Shining (Kubrick 1980).
Mai come in questo caso non bastano le sole citazioni a rendere il film convincente e, anzi, risultano sprecate in una storia che non riesce ad andare oltre un delirio visivo che aggiunge elementi su elementi, un horror vacui costante la cui struttura perfettamente ciclica è una coazione a ripetere fortunatamente arrestata dalla scritta 'fine'...
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