mercoledì 18 maggio 2016

J'ai tué ma mere (Dolan 2009)

L'opera prima di Xavier Dolan, qui anche attore protagonista, mostra già le potenzialità del regista di Mommy (2014) e le sue indubbie qualità. Il giovane cineasta canadese, infatti, appena diciannovenne, mette in scena una storia sul rapporto madre-figlio che sarà il motivo portante del film che ne ha poi segnato la consacrazione.
Il tema è chiaro sin dalla frase posta a esergo, tratta da Guy de Maupassant e incentrata sull'automatismo dell'amore filiale, un concetto non così scontato per il sedicenne protagonista, Hubert (Xavier Dolan).

Il rapporto conflittuale con sua madre, Chantale (una fantastica Anne Dorval che tornerà nel ruolo della madre proprio in Mommy), non conosce soste, la loro distanza gli fa pensare per paradosso di poter essere figlio di chiunque altro ma non suo, e a lei contesta tutto, mettendo bocca su come mangia, come guida, cosa ascolta alla radio, ecc.
Nei momenti di autoconfessione, che affida ad una videocamera e che Dolan gira in bianco e nero differenziandoli in tutto e per tutto dal resto del film, Hubert imputa alla madre di averlo messo al mondo senza esserne convinta ma solo perché spinta dalle convenzioni sociali (quasi ad anticipare l'argomento portante del recente e ben riuscito film-documentario di Elisabetta Pandimiglio e Daria Menozzi, Sbagliate - 2015)
La convivenza tra Hubert e Chantale appare sempre più complicata, cosicché Hubert vorrebbe persino affittare un appartamento per vivere per conto proprio. Tra i due non c'è dialogo e Hubert riesce a confidarsi con la sua professoressa, Julie (Suzanne Clément), mentre ha una storia con il suo amico, Antonin Rimbaud (François Arnaud) - cognome altisonante e non certo casuale - senza dir nulla a sua madre, costretta a saperlo per caso. La situazione diventa ingestibile per la donna, che ricorre all'intervento del padre del ragazzo, Richard, da cui ha divorziato anni prima e che vede raramente Hubert...

La pellicola può essere definita acerba per alcuni versi, ma la regia di Dolan è già incredibilmente consapevole: a dimostrarlo ci sono il bianco e nero "introspettivo" già segnalato, ma soprattutto le inquadrature decentrate dei due protagonisti, che diventano metafora della distanza dei due personaggi. A questo si aggiungano inserti di impatto visivo, come i montaggi con le foto di James Dean o quelli che alternano fermo-immagine di frutta o di farfalle. L'influenza dello stile da videoclip torna più avanti, con la sequenza in cui Hubert e Antonin dipingono con la tecnica del dripping l'ufficio della madre di Antonin, o ancora quella in cui Hubert è seduto in un autobus e la mdp tremante - a simulare il movimento - lo inquadra in rigorosa prospettiva centrale e con un sottofondo musicale che diventa protagonista.
Dolan, inoltre, realizza anche una sequenza di grandissima densità filmica, in cui sfrutta immagine, sonoro e gioca con i tempi e l'ambiguità della narrazione: durante uno dei tanti litigi tra madre e figlio, vediamo Hubert prendere i piatti e romperli, con la musica off che fa da sfondo ad una ripresa al ralenti, ma una volta tornata alla "normalità" comprendiamo essere stata solo un'idea del ragazzo.
C'è anche spazio per il citazionismo, quando Hubert dice alla professoressa che sua madre è morta - è questa la motivazione del titolo dato al film -, proprio come Antoine Doinel faceva col suo maestro delle elementari ne I quattrocento colpi (Truffaut 1959), e come in quel caso, la macabra bugia avrà dure conseguenze per il ragazzo, sia a breve termine sia a più lunga gittata.
Come per Antoine, infatti, anche per Hubert arriverà la "reclusione", anche se il collegio è aggiornato ad un convitto nella stessa città di Montreal in cui è ambientato il resto del film. Anche il momento in cui i genitori prendono la decisione è l'occasione per un'immagine extradiegetica metaforica, quella di una vetrina che si rompe e va in frantumi.
Dolan sfrutta più volte anche le parasoggettive, che riprendono i personaggi di spalle all'altezza della nuca: in alcuni casi unite al ralenti e ad una musica particolarmente lirica fanno pensare allo splendido In the mood for love (Kar Wai 1997), ma è ben riuscita anche quella di Hubert che cammina nella sala mensa del convitto.
Le difficoltà di Hubert vengono infine condensate nella bellissima immagine del suo corpo nudo nella vasca raggomitolato come un feto... sì, proprio come i fratelli Beverly nel bellissimo Inseparabili (Cronenberg 1988).
La sceneggiatura, scritta dallo stesso Dolan, è ottima e non disdegna qualche sortita più leggera rispetto ai toni drammatici del film, come dimostra Chantale che, ferita dalla mancata rivelazione del figlio sulla propria omosessualità, lo provoca dichiarando che solo ora capisce perché gli piacesse così tanto Leonardo DiCaprio in Titanic (Cameron 1997).
Un ultimo accenno alla bravura di Anne Dorval, la cui Chantale lotta per tutto il film tra l'amore immenso per il figlio e la necessità di mettere un freno ai suoi eccessi, e che raggiunge il punto più alto quando esplode contro il direttore del convitto che spiega la fuga del figlio con l'assenza di una figura paterna, accusandolo di machismo e incompetenza.
Un esordio davvero notevole per il giovane talento canadese, tanto più sapendo che negli anni a seguire Dolan ha girato altri cinque film, di cui ora non ci resta che aspettare l'uscita imminente di Juste a la fin du monde!

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