giovedì 7 novembre 2013

Nói Albinói (Kari 2003)

Ho scoperto che per filmscoop ne avevo scritte varie, ricordavo solo Minority Report...
E allora eccovene un'altra del 31 gennaio 2004 (vedi).


Nói è un ragazzo islandese che vive con la nonna in una piccola casa in mezzo alla neve, in un paesino dell'isola scandinava. Il padre è un tassista con tramontate aspirazioni musicali, spesso affogate nell'alcol. Della madre non sappiamo nulla. La vita di Nói trascorre identica giorno dopo giorno, tra la scuola, il più delle volte disertata, una rituale birra, una visita dal libraio con cui gioca a mastermind, i difficili contatti col padre e la cantina di casa, suo piccolo rifugio.

Qualcosa cambia quando al negozio in cui solitamente compra la birra arriva la figlia del libraio, una bella ragazza che suscita l'interesse di Nói. I due iniziano una timida relazione, accomunati dall'evidente impossibilità di trovare la propria dimensione nel non-luogo in cui vivono. I due progettano persino una fuga insieme, ma Iris, questo il nome della ragazza, non seguirà Nói che arriverà persino ad essere arrestato dopo il furto di un'auto. Dopo l'uscita su cauzione sarà la cantina in cui il ragazzo cerca di isolarsi a rappresentare la sua salvezza.

Il film di Dakur Kari potrebbe essere semplicemente definito catartico: una pellicola dai toni semplici, netti, candidi come la neve che per tutta la durata del film domina la scena. Il cinema di Dogma, fin troppo spesso pretenzioso, almeno nel suo "capostipite" von Trier, trova in film del genere la sua migliore dimensione: un cinema già definito "minimal-esistenzialista", in una realtà in cui l'uomo è costretto a combattere con la natura per sopravvivere (Nói riscalda il terreno per scavare una buca nel cimitero del paese, dove il padre gli trova un lavoro; spalare la neve è un atto quotidiano per poter uscire di casa; persino una passeggiata con la propria ragazza è resa impossibile dal freddo).
Tutti i personaggi sono degni rappresentanti di quella che a buon diritto va considerata una poesia della solitudine. Non solo Nói, infatti, vive tale condizione a cui spesso non sembra pensare, ma anche il padre, che abita solo in un piccolissimo monolocale, frustrato per la sua vita e deluso dalla condotta scolastica del figlio; la nonna, che non sentiamo mai parlare se non quando sveglia il nipote al mattino; Iris, appena tornata dalla capitale e, a detta del padre, anch'egli solo, un po' stressata dal "grande centro"; il meccanico del paese, senza nemmeno un aiutante, e che come secondo lavoro legge il futuro nei fondi delle tazze di caffè; lo stesso vale per il preside, gli altri professori e persino gli alunni che non scambiano una parola tra di loro.
Eppure quello che sembra un soggetto quasi insostenibile per la sua crudezza risulta per lunghi tratti una commedia in cui ci si diverte davvero. La pellicola, pur se un'opera prima, con tutti i pregi e i difetti del caso, ha l'indubbio merito di avere un equilibro costituito dal sapiente accostamento di una componente comico-surreale e di un'altra catartico-drammatica, risultando un piccolo saggio di cinema semplice ed essenziale.

Complimenti al regista, un islandese appena trentenne che ha studiato cinema in Danimarca e di cui speriamo di sentir parlare ancora in futuro, che di fronte ad un soggetto difficile, e facilmente orientabile verso scontate interpretazioni moralistiche, ha saputo soffermarsi su quanto di surreale offrivano il posto dimenticato da Dio in cui la storia è ambientata e le vite di personaggi calati in questo contesto, riuscendo a suscitare nel pubblico sorrisi, riflessioni e persino, per un solo attimo, quando Nói guarda il notiziario televisivo, commozione.
Un'attenzione particolare alle esilaranti scene in cui la nonna di Nói prova dei passi di danza guardando la televisione; il libraio stronca la filosofia di Kierkegaard; il professore di francese insegna ai ragazzi l'arte di fare una buona maionese (!); Nói va a colloquio con lo psicologo chiamato dalla scuola per sincerarsi del suo stato mentale.

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