Vediamo Venezia ma, senza nemmeno un dettaglio dei suoi monumenti, potrebbe essere qualunque altro luogo se non fosse per qualche canale, e non vediamo nulla delle altre splendide città venete, nemmeno Treviso, che è sempre lì a un passo (trailer).
Il film di Sossai si svolge negli spazi vuoti che sono in mezzo e ignora scientemente i centri urbani, gli stessi che non compaiono nell'affresco di un pittore nell'orbita di Paolo Veronese (o almeno così dice la sceneggiatura), che uno dei personaggi del film osserva bene, notando come in quel paesaggio vengano uniti la laguna e le montagne senza "le città di pianura" del titolo, un titolo in absentia.
Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla) sono due cinquantenni che dimostrano più anni di quelli che hanno e passano le notti insieme a bere, tirando fino all'alba alla ricerca dell'ultimo bicchiere, che si rivela essere sempre il penultimo...
Lavorano in un'azienda di occhiali, fiore all'occhiello dell'industria di zona (basti pensare che a Pieve di Cadore esiste il Museo dell'Occhiale) e un tempo con completava il trio Eugenio, per loro semplicemente Genio (Andrea Pennacchi), da anni trasferitosi in Argentina, ma che ora può tornare. I due sono pronti ad andarlo a prendere al mattino dopo, se solo sapessero in quale aeroporto, complice la loro scombinatezza, ma anche l'esistenza di un aeroporto low cost per Venezia sempre più battuto, che in realtà è a Treviso (l'Antonio Canova ndr) solo "per inculare i turisti", come precisa Doriano.
Durante quella notte, inoltre, la ricerca di alcol porta i due amici a Venezia, dove si uniscono a un festeggiamento di laurea, in cui prendono in simpatia, tanto da farlo unire a loro, Giulio (Filippo Scotti), uno studente d'architettura di Napoli, un po' cupo e ingessato, innamorato di una collega ma troppo impacciato per fare dei passi. Secondo Carlobianchi e Doriano ha bisogno di una scossa.
Da lì questo road movie, caratterizzato dalle vite sconquassate dei suoi protagonisti, si arricchisce di un nuovo personaggio che, nonostante l'età, appare il più maturo dei tre.
Sossai gira utilizzando tanti carrelli, che fanno di per sé narrazione, che seguono i personaggi nei loro cammini. A tratti si pensa a quello storico e molto cinema indipendente come questo, di Berlinguer ti voglio bene (G. Bertolucci 1977), che riprendeva per lunghi minuti Roberto Benigni.
Tante le situazioni comiche e grottesche in cui si ritrovano i protagonisti, che spesso fanno sì sorridere, ma generano anche l'angoscia della vita priva di interessi e di scopi se non quella di rivangare i "bei" tempi, come sottolinea la dissonante e malinconica colonna sonora di Krano.
E così, dal coloratissimo cocktail di gamberi in salsa rosa rimediato a una triste festa di addio al nubilato, si passa all'incontro fugace con un vecchio collega in pensione, Primo Sossai - non credo a caso il cognome del regista - che rischia di essere una loro proiezione qualche decennio più avanti: solo, triste, davanti a una slot machine, ma con un Rolex al polso, che fa il paio con la Jaguar con cui loro scorrazzano per le campagne.
E proprio quel Rolex è all'inizio del film l'epilogo di un flashback che dice tanto di quella realtà, perché a Primo è stato donato nel 2007 nel giorno della pensione dal datore di lavoro, il padrone dell'azienda (Roberto Citran) che, con fare berlusconiano, acuito dal titolo di cavaliere del lavoro, arriva in elicottero per omaggiare il dipendente, dopo essersi fatto dare i dettagli della sua vita. Una finta e ipocrita amicizia che raggiunge l'apice nella richiesta di dargli del tu, a lui che per decenni non ha mai saputo chi fosse, con quel fare sorridente e cameratesco che serve a "impressionare" quelli che rimangono, a farsi pubblicità tra il personale, più che all'uomo a cui indirizza quelle parole e quel regalo prestigioso, con tanto di iscrizione incisa sulla cassa.
Tante le situazioni comiche e grottesche in cui si ritrovano i protagonisti, che spesso fanno sì sorridere, ma generano anche l'angoscia della vita priva di interessi e di scopi se non quella di rivangare i "bei" tempi, come sottolinea la dissonante e malinconica colonna sonora di Krano.
E così, dal coloratissimo cocktail di gamberi in salsa rosa rimediato a una triste festa di addio al nubilato, si passa all'incontro fugace con un vecchio collega in pensione, Primo Sossai - non credo a caso il cognome del regista - che rischia di essere una loro proiezione qualche decennio più avanti: solo, triste, davanti a una slot machine, ma con un Rolex al polso, che fa il paio con la Jaguar con cui loro scorrazzano per le campagne.
E proprio quel Rolex è all'inizio del film l'epilogo di un flashback che dice tanto di quella realtà, perché a Primo è stato donato nel 2007 nel giorno della pensione dal datore di lavoro, il padrone dell'azienda (Roberto Citran) che, con fare berlusconiano, acuito dal titolo di cavaliere del lavoro, arriva in elicottero per omaggiare il dipendente, dopo essersi fatto dare i dettagli della sua vita. Una finta e ipocrita amicizia che raggiunge l'apice nella richiesta di dargli del tu, a lui che per decenni non ha mai saputo chi fosse, con quel fare sorridente e cameratesco che serve a "impressionare" quelli che rimangono, a farsi pubblicità tra il personale, più che all'uomo a cui indirizza quelle parole e quel regalo prestigioso, con tanto di iscrizione incisa sulla cassa.
Per comprendere quanto sia grottesco e contraddittorio ogni personaggio, basta entrare in casa di Genio, dove all'ingresso campeggiano prima un'enorme tigre in ceramica, quindi un quadro con Gesù Cristo e una foto di Karol Woytjla.
La distanza tra Giulio e i due suoi nuovi amici è in tutto, nella curiosità, nella cultura, nella voglia di provare a incidere in qualche modo e non lasciare che tutto sia come sia del ragazzo, che nonostante si sia ormai affezionato a Carlobianchi e a Doriano, non può non prorompere in un "come fate a non sapere un cazzo del posto in cui vivete?" E nella risposta di Doriano c'è tutto il pragmatismo del loro vissuto, "non conosciamo un cazzo, ma conosciamo tutto". D'altronde, che senso ha conoscere una realtà in cui deve nascere l'autostrada Lisbona-Treviso-Budapest, che fa da tormentone alla storia? “Distruggeranno tutto. Non rimarrà più nulla di questa regione. Solo un’enorme infrastruttura e nessun posto dove andare”.
E, quindi, dall'altra parte di Giulio, ci sono loro due, che dormono in auto, tornano a casa sbronzi come adolescenti, pronti a trovare una donna che li tratta da tali e li rimette a letto come se fossero i suoi figli; saltano i posti di blocco; fanno sesso anche insospettabile; bevono di tutto, pur di ubriacarsi, e incappano anche in spiacevoli sorprese come le birre analcoliche che, naturalmente, non servono alla bisogna.
Forse il momento più Amici miei del film, però, è quello in cui pur di ottenere qualcosa da bere, si fingono insieme a Giulio un gruppo di architetti ed entrano nella villa già citata con gli affreschi alle pareti, approfittando del proprietario, che è proprio in attesa di alcuni architetti per parlare di un progetto.
Giulio è l'unico credibile come architetto, naturalmente, ed è sempre lui che porta gli altri due a vedere la tomba Brion di Carlo Scarpa, nella piccola frazione di San Vito ad Altivole. I capolavori di provincia, la bellezza e le interpretazioni di quell'architettura colpiscono anche Carlobianchi e Doriano, che per la prima volta sembrano leggermente scossi dalla distanza culturale col ragazzo. Eppure gli hanno dato tanto, Giulio è cresciuto molto in pochi giorni grazie a loro, è più sicuro e pronto ad affrontare la vita e le occasioni, anche relazionali, con più spensieratezza e sicurezza, dopo la più sgangherata e straordinaria delle educazioni sentimentali.
Le città di pianura è soprattutto questo, tra una risata, una battuta e una riflessione filosofica sul senso della vita. Quando la profondità è nella leggerezza del quotidiano, perché basta sapere che "non c'è mai un'altra volta...".
E, quindi, dall'altra parte di Giulio, ci sono loro due, che dormono in auto, tornano a casa sbronzi come adolescenti, pronti a trovare una donna che li tratta da tali e li rimette a letto come se fossero i suoi figli; saltano i posti di blocco; fanno sesso anche insospettabile; bevono di tutto, pur di ubriacarsi, e incappano anche in spiacevoli sorprese come le birre analcoliche che, naturalmente, non servono alla bisogna.
Forse il momento più Amici miei del film, però, è quello in cui pur di ottenere qualcosa da bere, si fingono insieme a Giulio un gruppo di architetti ed entrano nella villa già citata con gli affreschi alle pareti, approfittando del proprietario, che è proprio in attesa di alcuni architetti per parlare di un progetto.
Giulio è l'unico credibile come architetto, naturalmente, ed è sempre lui che porta gli altri due a vedere la tomba Brion di Carlo Scarpa, nella piccola frazione di San Vito ad Altivole. I capolavori di provincia, la bellezza e le interpretazioni di quell'architettura colpiscono anche Carlobianchi e Doriano, che per la prima volta sembrano leggermente scossi dalla distanza culturale col ragazzo. Eppure gli hanno dato tanto, Giulio è cresciuto molto in pochi giorni grazie a loro, è più sicuro e pronto ad affrontare la vita e le occasioni, anche relazionali, con più spensieratezza e sicurezza, dopo la più sgangherata e straordinaria delle educazioni sentimentali.
Le città di pianura è soprattutto questo, tra una risata, una battuta e una riflessione filosofica sul senso della vita. Quando la profondità è nella leggerezza del quotidiano, perché basta sapere che "non c'è mai un'altra volta...".






alcune battute citate sono dette da Carlo, non Doriano
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