C'era una volta Gli Spietati (1992). Negli anni successivi all'uscita del film di Clint Eastwood si parlò molto tempo di come uno dei grandi generi autoctoni del cinema statunitense (insieme al musical, che ha seguito un percorso simile) sembrasse esaurito, e che invece forse poteva rigenerarsi, come dimostrava quella pellicola spartiacque.
In realtà il discorso sull'eterno rigenerarsi del western si era fatto anche con Piccolo grande uomo (1970), che ribaltava la logica manichea dei buoni-cowboy/cattivi-indiani, come poi riaccaduto con Balla coi lupi (1990) (trailer).
Ma in effetti, dagli anni '90 in poi il western è rinato sia con opere di rottura col passato, che hanno affrontato nuove tematiche, e penso soprattutto a I segreti di Brokeback Mountain (Lee 2005), per la rivoluzionaria e palese trama omosessuale, o più recentemente a Il potere del cane (2021), in cui Jane Campion univa il giallo al tema gender; ma anche nel solco della tradizione, come Appaloosa (Harris 2008), e poi un capolavoro come The Hateful Eight (Tarantino 2015), che riusciva a rendere claustrofobico e teatrale il western, genere di spazi aperti per antonomasia, fino al bellissimo La ballata di Buster Scruggs (Coen 2018), con cui i Coen commovevano, ironizzavano, ci divertivano e ci facevano riflettere come a loro riesce sempre superbamente.
Dead don't hurt appartiene sicuramente al primo gruppo, ma non ci rientra affrontando il contrasto tra quel mondo clamorosamente maschilista e l'impossibile libertà di esprimere il proprio orientamento sessuale, bensì sceglie di raccontare una storia al femminile in un western poetico e intimista. Lo fa senza l'anticonformismo giocoso di Gus Van Sant e il suo Cowgirl (1993, ancora gli anni novanta!), ma seguendo la tradizione dicotomica del genere, in cui buoni e cattivi sono perfettamente distinguibili (c'è persino un duello), in cui la giustizia è ingiusta e i potenti la fanno (quasi) sempre franca. Eppure questa tradizione è sconvolta dai suoi personaggi principali, entrambi fuori dal tempo e dal contesto (vengono da luoghi altri e questo in parte ne spiega l'inconvezionalità) un cowboy sensibile e protofemminista, ma soprattutto una donna indipendente e tutta di un pezzo al punto da urlare al suo uomo, che durante un litigio le propone di sposarlo, "non mi sposerò mai, né con te né con altri!"
Viggo Mortensen dedica la pellicola alla madre, Grace Gamble Atkinson, e a lei si ispira per la sua eroina, Vivienne Le Coudy, interpretata da un'ormai solita e gigantesca Vicky Krieps (su tutti Il filo nascosto, Anderson 2017, e Il corsetto dell'imperatrice, Kreutzer 2022).
Siamo nel 1860, all'estremo occidente degli Stati Uniti, al confine tra California e Nevada, e Holger Holsen (Mortensen stesso) è un ex sceriffo che vive con il figlio, poiché la sua compagna è morta da poco. Nelle prime due sequenze, significativamente girate con un lento carrello indietro seguito da uno in avanti, la regia ci dice tutto questo attraverso le immagini, con il volto di Vivienne che si spegne e la mano di Holger che le chiude per sempre gli occhi. Holger riconsegna anche la stella da sceriffo al sindaco della piccola Elk Flats, Rudolph Schiller (Danny Huston), senza aggiungere una parola, nonostante in città ci sarebbe bisogno di un eroe, poiché Weston Jeffries (Solly McLeod), il figlio del potente Alfred (Garret Dillahunt), ha ucciso diverse persone a sangue freddo. Holger Olsen, però, è un antieroe e Dead don't hurt è la storia di un antieroe che accetta la sconfitta, preferendo la vita alla gloria, il figlio agli onori della vendetta... anche se il caso può sempre sovvertire le scelte.
Il montaggio di Peder Pedersen ha un ruolo fondamentale, poiché dopo questa premessa, il tempo dell'azione non sarà più univoco per l'intera durata del film che, in luogo di una narrazione lineare, alternerà continuamente i flashback al presente. Per raccontarci di Vivienne, poi, si arriverà persino a una doppia analessi, con una struttura narrativa a cannocchiale, mostrandocela nel periodo in cui anni prima conobbe Holger e da lì un nuovo salto indietro nei suoi ricordi, alla sua infanzia. Vivienne è cresciuta in Quebec, il padre è morto quando era una bambina e la madre l'ha tirata su insegnandole l'autodeterminazione attraverso la storia di Giovanna d'Arco. Sono questi pochi dettagli (forse davvero troppo pochi) a spiegarci la sua personalità da adulta, il suo modo di porsi nel mondo e a farci capire il colpo di fulmine con cui lei e Holger si innamorano dopo un casuale incontro al mercato del pesce di San Francisco.
Anche Holger viene da lontano, è di origini danesi, lavora come carpentiere e una donna così lo affascina incredibilmente: la loro conoscenza avviene a suon di battute, dopo il primo sguardo e il primo sorriso sono le parole a prendere il sopravvento e dalle parole alla mente il passo è breve.
Vivienne è dura, decisa, ma non per questo non sa essere dolce. Porta Holger a una mostra di dipinti, in casa del suo vecchio pretendente, l'aristocratico collezionista irlandese Lewis Cartwright (Colin Morgan), solo per il gusto di sbattergli in faccia la sua nuova vita. Holger capisce di essere stato usato, ma resta suo complice, "sei una ragazza cattiva", le dice sorridendo, e si sente rispondere "per questo ti piaccio". La donna è disinvolta persino nel sesso e anche una semplice e ambigua battuta del suo uomo - "sei sempre più brava con le mani" (in originale handy, che si sarebbe potuto tradurre meglio con "alla mano", mantenendo il corretto valore semantico) - può scatenare giochi erotici che la vedono protagonista e mai sottomessa.
Nel quotidiano segue Holger ma ci discute con fermezza quando non è d'accordo e, di fronte alla casa isolata in una valle tra le montagne in cui la porta a vivere, non è certo entusiasta e decide di trasformare quel contesto in un luogo decisamente più accogliente. Lo scambio di battute più divertente tra loro avviene quando Vivienne, indispettita, lo offende - "vivi come un cane" -, ma Holger anche lì sorride e risponde "un cane felice"... "e cosa fai qui?" "il meno possibile".
Holger, però, non è un rozzo uomo del west come tanti, ma è sensibile, empatico e comprende le esigenze di Vivienne aiutandola ad operare questa trasformazione, anche se storce il naso quando la compagna decide di andare a lavorare al saloon di Alan Kendall (W. Earl Brown), frequentato spesso dai potenti e arroganti Jeffreys.
Sono gli anni della guerra di secessione e la Union Army (i cosiddetti nordisti) sta cercando volontari che si arruolino anche in California: Holger - in questo sì uomo del suo tempo - si arruola e lo dice a Vivienne a cose fatte, adducendo come motivazione primaria la spinta idealista verso l'abolizione della schiavitù.
Da quel momento in poi la loro relazione si complicherà per la lunga distanza e per una comunicazione epistolare pressoché impossibile. Negli anni della guerra la storia segue solamente Vivienne costretta a sopravvivere da sola in un mondo al maschile.
E, al ritorno di Holger, non sarà per nulla facile per entrambi, anche se pure in questa occasione dimostreranno di essere una coppia decisamente sui generis.
Il film funziona, è una pellicola indipendente che racconta bene il senso della sconfitta e l'arroganza del potere che rimane costantemente impunito, mantenendo alta l'attenzione dello spettatore, ed è girata in affascinanti location naturalistiche in maniera sofisticata, con le scenografie di un mostro sacro come Carol Spier (la storica collaboratrice di David Cronenberg) e la fotografia di Marcel Zyskind.
Tra le sequenze visivamente più riuscite c'è senza dubbio quella in cui Holger scrive in danese alla luce calda di una lampada a olio, in un angolo della casa con una piccola libreria e una scrivania. Uno studiolo perfetto e inaspettato, con tanto di teschio di un animale sugli scaffali, che sembra fare da memento mori come in un dipinto seicentesco.
Che la storia dell'arte sia presente nella messa in scena lo dimostrano anche altri due momenti almeno. Nel primo vediamo Vivienne lavarsi con una brocca d'acqua versata in un catino: le condizioni di luce sono ancora quelle che rimandano al Seicento e La lattaia di Jan Vermeer (Amsterdam, Rijksmuseum, 1658-60) sembra davvero il riferimento più immediato. Nel secondo Vivienne è sanguinante e tumefatta sopra il suo letto, in lacrime: la mdp la riprende dall'altro mostrandola rannicchiata su se stessa, una sorta di Maddalena penitente e sofferente, caravaggesca (Roma, Doria Pamphilj) o meno poco importa.
A tutto questo tra le immagini più vivide della pellicola va aggiunta quella ripetuta del sogno della piccola Vivienne, che in una radura in un bosco incontra un cavaliere medievale in armatura e celata: la morte del padre e l'immaginario delle prodezze di Giovanna d'Arco hanno avuto la meglio sul suo inconscio.
Poesia e tenerezza trovano ulteriore slancio nelle sequenze del viaggio di Holger e il bambino che, per la prima volta davanti al mare, esploderà con "questa è la fine del mondo?" sentendosi rispondere con un laconico "di questo mondo".
Viggo Mortensen, al suo secondo film da regista, dopo Falling (2020), scrive la sceneggiatura, produce, lo interpreta, e stavolta è anche l'unico autore della colonna sonora, mai invasiva e che fa da contrappunto alle scene accompagnandoci lungo il film. Difficile chiedere di più a un solo uomo.
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