martedì 27 febbraio 2024

Chant d'hiver (Ioseliani 2015)

L'ultimo film di Otar Ioseliani, che ci ha lasciato lo scorso 17 dicembre, non è mai stato distribuito in Italia. Una pessima scelta a cui la Casa del cinema di Roma ha posto rimedio in una serata omaggio dedicata al grande regista georgiano, organizzata da Carlo Hintermann, Daniele Villa e Luciano Barcaroli, che nell'ormai lontano 1999 avevano scritto il fondamentale Ioseliani secondo Ioseliani. Addio terraferma (Roma, Ubulibri), con l'introduzione di Enrico Ghezzi e la ricerca bibliografica curata da chi scrive (trailer).
È stata una festa, malinconica, ma pur sempre una festa, alla presenza di amici, parenti, collaboratori, rappresentanti dell'ambasciata georgiana, in memoria di un uomo che per tuta la carriera è stato in grado di unire cinema e poesia, insegnandoci quanto si possa essere diversi da ciò che ci circonda e rimanere se stessi senza adattarsi alla società. E Chant d'hiver non fa eccezione.
Si parte da una ghigliottina difettosa che decapita un visconte che rifiuta di morire senza la sua pipa in bocca (Rufus), al cospetto di un pubblico numeroso, costituito quasi esclusivamente da donne che filano nell'attesa della scossa emotiva di quello spettacolo macabro. Si arriva ai giorni nostri, in cui la guerra è spettacolarizzata e vista in TV mentre si mangia un gelato o si beve tranquillamente un drink su un divano. Il parallelo è evidente.
Il montaggio unisce tempi diversi, il filo conduttore è lo stesso uomo ghigliottinato, poi cappellano militare che battezza soldati, un clochard di Parigi, schiacciato da un rullo compressore - come in un cartone animato della Warner Bros - fatto passare sotto una porta per "tornare a casa", e infine un custode colto e allo stesso tempo trafficante d'armi, che da un rullo simile verrà salvato da un amico, l'antropologo interpretato dal georgiano Amiran Amiranashvili, indimenticato volto di Briganti (Ioseliani 1996).
La storia per quanto assurda si ripete, ma l'accidente può cambiarne l'esito, come il cineasta georgiano dimostra senza mai perdere l'ironia e la capacità quasi dadaista di decontestualizzare gli oggetti, come quando ci mostra una ragazza che prepara le verdure tagliandole con una piccola ghigliottina da tavolo.
La Bastiglia è evocata nell'unica fermata del métro la cui insegna viene inquadrata (Métro Bastille, appunto) e, non a caso, uno dei personaggi, dettando cosa scrivere ad alcuni bambini, dice "Robespierre, che voleva il bene della gente, instaurò il terrore" e poco dopo "Marat pretese 250 mila teste".
Con lo stesso tocco surrealista e da cinema degno della slapstick comedy, un politico finisce in un tombino, mentre una donna fa un incidente in auto, ma senza scomporsi va a bere con un'amica in un locale dove si prostituisce e in cui un ragazzo "col problema culturale" le parla di musica classica e poi la palpa. E poi, su un muro vecchio e scrostato si apre quasi per magia una porta che permette di accedere a un giardino da sogno, con piante e animali di ogni tipo.
Qua e là dei cameo, per lo stesso Otar Ioseliani, tra gli astanti dell'apertura di un testamento, per Enrico Ghezzi, barone vacanziero in Francia con la famiglia, per il comico e clown Pierre Étaix e per Mathieu Amalric
Ioseliani è uno di quei registi che sa raccontare anche senza l'ausilio della parola, mettendo in scena il cinema puro del muto. E, in effetti, come da tradizione, anche Chant d'hiver non è certo un film di dialoghi o di lunghe linee di sceneggiatura, quanto di eloquenti gag e significanti immagini.
Una pellicola grottesca, fatta di nonsense e paradossi, eppure ricca di significati profondi, costantemente capace di farci riflettere.
Addio Otar, maestro indiscusso di cinema indimenticabile!

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