mercoledì 7 febbraio 2024

Povere creature! (Lanthimos 2024)

L'idea originaria del racconto di Frankenstein di Mary Shelley (1818), con in cima il mito del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau; le sue versioni cinematografiche, come quella di James Whale (1931) e quella parodistica di Mel Brooks (Frankenstein Junior, 1974); e poi un pizzico di Freaks (Browning, 1932) e del cinema di Tim Burton, una spruzzata gotica, vittoriana e steampunk, una pop alla Moulin Rouge (Luhrmann 2001), il tutto, colorato e grottesco, servito su un letto di femminismo d'annata (trailer).
Questa è la ricetta con cui, dopo il Leone d'oro a Venezia e il Golden Globe per la miglior commedia, Yorgos Lanthimos tenta la scalata all'Oscar (11 nomination) con il suo ipertrofico Poor things, laddove la traduzione italiana, ripresa da quella per il romanzo dello scozzese Alasdair Gray (1992, ed. it. 1994), rende nel modo migliore possibile l'idea di "poverini" dell'espressione inglese.
Una storia che permette al regista greco di rendere più appetibile al grande pubblico le sue caratteristiche cinematografiche, in cui il rigore buñueliano dei primi film lascia sempre più spazio alla messa in scena rutilante, pop appunto, senza rinunciare del tutto alla critica sociale, seppur stemperata dalla forma. A questo si aggiunga un trio d'attori eccezionale, costituito da Emma Stone, Willem Dafoe e Mark Ruffalo, magistralmente diretti e che rendono alla perfezione.
Godwin Baxter (Willem Dafoe), che ama farsi chiamare "semplicemente" God, è un professore di medicina all'università di Londra che ha raccolto il corpo di una donna suicida e, grazie a un intervento cerebrale, le ha ridato vita donandole il cervello del feto ancora non partorito che aveva in pancia. Bella (Emma Stone), pertanto, è una donna adulta con le capacità intellettive di una bambina appena nata. Un mix tra bellezza, vaghezza e ingenuità che affascina il suo stesso creatore, ma anche chiunque la conosca, come il giovane allievo del professor Godwin, Max McCandles (Ramy Youssef), e il più attempato tombeur de femmes, Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo). Bella, per tutta risposta, promette di sposare il primo, ma parte in viaggio per un'avventura con il secondo, che la inizia ai piaceri del sesso, dapprima scoperti da sola, per caso, come accade a ogni bambino, e poi diventati un naturale obiettivo da ricercare costantemente.
Godwin è figlio di uno "scienziato pazzo" che lo ha considerato un esperimento vivente sin dall'infanzia, come dimostrano le numerose cicatrici sul volto (l'elemento frankensteiniano più evidente del film) e l'assenza dei succhi gastrici nel suo corpo, motivo per cui la sua digestione avviene attraverso grosse bolle di aria che, quando scoppiano, rilasciano odori sgradevoli. Non può sorprendere, quindi, che anche lui giochi con il corpo degli esseri viventi. Questo non vale solo con i cadaveri che disseziona a lezione, nel tipico catino da teatro anatomico (il cui primo esemplare fu quello di Padova del 1594), ma anche con la stessa Bella ovviamente, e con gli animali domestici, dato che nella sua ricca casa vediamo camminare in cortile dei pet frankenstein che uniscono il cane e l'oca, l'oca e la capra, nonché l'affettuoso maiale-gallina, fino all'esemplare che chiude la pellicola. Come non pensare a versioni ibride delle trasformazioni zoomorfe dei single senza anima gemella di The Lobster (Lanthimos 2015)?
La veduta di Lisbona nel film
Lanthimos, che ambienta la vicenda a Londra e non a Glasgow, dove si svolgeva invece il romanzo, ci fa guardare spesso il mondo di Godwin e Bella con il fish-eye, deformando una realtà che già storia e personaggi rendono straniante. La deformazione, però, è anche quella negli occhi della protagonista, che percepisce tutto come nuovo, motivo per cui il regista greco ricorre inizialmente al bianco e nero, omaggio al cinema espressionista tedesco, sì, ma anche visione parziale di Bella, che poco dopo scoprirà il mondo e anche i suoi colori.
È straniante anche l'impossibile momento storico in cui si svolge l'azione: il tempo di Povere creature è più escheriano dei suoi spazi. La capitale inglese ha un fascino sostanzialmente ottocentesco e vittoriano, con dettagli identitari come la Torre di Londra o lo skyline che vediamo quando Bella raggiunge il tetto di casa Baxter, mentre il brano parigino del film sembra slittare leggermente più avanti e quindi già nella Belle Époque. Discettare su queste vicine cronologie, però, lascia il tempo che trova quando vediamo che nelle città volano delle navicelle del tutto simili a quelle de Il quinto elemento (Besson 1997) e, di fronte al passato di Bella che torna, ci immergiamo persino in un palazzo settecentesco che ci riporta alle atmosfere de La favorita (Lanthimos 2018).
La scenografia contribuisce a confonderci e anche il tetto citato, per esempio, sembra uno di quelli grigi alti e in zinco di Parigi, dove Bella e Duncan approderanno in seguito, nel corso del loro viaggio per terra e per mare, dopo Lisbona e Alessandria. In Portogallo Bella mangia pasteis de nata e ascolta il fado, mentre in Egitto scopre il dolore e l'indigenza dei poveri, reagendo con un'empatia totale.
Bella Baxter, fondendo Frankenstein e Barbie, entra di diritto tra i personaggi più rivoluzionari e identitari del grande schermo in questo scorcio di XXI secolo, con la sua capacità di sedurre più o meno consapevolmente, di vivere al di là del bene e del male, priva di morale e di ogni consuetudine sociale, mettendo davanti a tutto la ricerca del piacere personale e della libertà. Il suo viaggio con Duncan è disarmante: dapprima perché decide di partire nonostante si sia promessa a Max, incredulo si sentirle dire che ha bisogno di fare questa avventura e che poi tornerà, e poi, una volta partita, per come gestisce tempi e scelte. "Io devo partire, vedere il mondo" è la sua dichiarazione d'intenti, ma la vittoria di Duncan durerà poco, perché le stranezze di Bella lo metteranno in difficoltà sistematicamente: nel sesso, perché non può garantirle le prestazioni continue che lei vorrebbe; in società, perché anche a tavola è sorprendente e, se qualcosa non le piace, la sputa ("perché tenerlo nella mia bocca se è rivoltante?"), o se un neonato la disturba vorrebbe prenderlo a pugni.
Bella parla di ciò che vuole quando vuole e fa quello che vuole quando vuole, in barba alle convenzioni sociali di cui apprende l'esistenza proprio durante il viaggio. La gelosia è un sentimento altrettanto incomprensibile per lei che, con il suo atteggiamento davvero libero, scombussolerà anche la vita di Duncan, abituato ad essere lui il libertino della coppia.
In uno stato di cose come questo, è facilmente comprensibile l'amicizia di Bella con un'anziana signora dell'alta società, Martha, che l'ammira con simpatia, persino quando la vede sconvolta alla notizia che non faccia sesso da vent'anni e rasserenata solo quando le assicura che ogni tanto continua a darsi piacere da sola. Martha in lei probabilmente vede un segno di rottura con il passato che ha vissuto, quello che anche lei avrebbe voluto essere e non avrebbe mai osato chiedere in questa società.
Che Martha sia interpretata da una stupenda ottantenne come Hanna Schygulla, attrice feticcio di Rainer Werner Fassbinder, è una bella sorpresa per i cinefili, che apprezzeranno anche, nella piccola parte di un'omologa meno riuscita di Bella, la figlia di Andie McDowell, Margaret Qualley, che dopo C'era una volta a... Hollywood (Tarantino 2019), mette in curriculum un altro film d'autore.
Dopo le tante suggestioni cinematografiche inserite all'inizio di questa analisi, ne resta almeno un'altra da non perdere: nel bordello parigino in cui Bella lavora, tra i clienti c'è anche un padre di famiglia che porta i suoi bambini con sé, a fini didattici, non lesinando sui dettagli, in una sequenza che non può non ricordare la lezione di educazione sessuale di John Cleese nell'indimenticabile Monty Python - Il senso della vita (Jones 1983), che quaranta anni fa era ancora più dissacrante ed esplicito (vedi).
Oltre a tanto cinema, citato, evocato e realizzato, Bella veste i panni del filosofo: come il cinico Diogene, infatti, mentre legge non vuole essere infastidita e, se qualcuno la disturba, reagisce come leggenda vuole che il filosofo reagì davanti ad Alessandro Magno, allontanandolo con un perentorio "mi copri il sole". 
Il messaggio è fin troppo diretto: Bella è ingestibile ed è forse proprio quello l'aggettivo su cui il film vuole far riflettere lo spettatore. Sul perché la nostra società sia così abituata a gestire le persone invece di rispettarne le caratteristiche e la singolarità.
La critica sociale di Lanthimos in passato era sicuramente più simbolica e dura (Dogtooth, 2009; The Lobster) e anche il disagio riservato allo spettatore era ben più forte (Alps, 2011; Il sacrificio del cervo sacro, 2017): ora la poltrona si è fatta più comoda e il suo cinema può raggiungere una fetta decisamente più ampia di pubblico. La speranza è che il suo cinema tagliente col tempo non perda d'intensità.

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