lunedì 30 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon (Scorsese 2023)

Martin Scorsese chiude i cerchi girando il suo primo western. Nella perfezione della sua filmografia, con Killers of the Flower Moon, adattamento de Gli assassini della terra rossa (David Grann, 2017) prodotto da Apple tv, il cineasta newyorchese porta sul grande schermo l'ennesima storia di soprusi e di ingiustizie, raccontando ancora una volta il più bieco lato oscuro del sogno americano. E così, dopo la Little Italy di Mean Streets (1973) e di Quei bravi ragazzi (1990), e dopo Casinò (1995), dove agli italiani si sostituivano gli ebrei statunitensi, o The Irishman (2019), in cui erano gli irlandesi a detenere il potere, questa è la volta del dramma epico ambientato negli anni venti del Novecento in cui i bianchi soppiantano i nativi americani (trailer). Un racconto di fondazione al pari di Gangs of New York (2002), e come tutti i racconti di fondazione violento e, mi si conceda il neologismo, rapitorio, perché l'America è nata, sin dalla sua cosiddetta scoperta, distruggendo tutto ciò che c'era prima. La violenza narrata è quella contro gli indiani Osage, il popolo pellerossa che nella sua parabola trovò la fortuna nel petrolio ma, subito dopo, anche la lenta e inesorabile vendetta di chi trovò il modo di ingannarli e di decimarli per sostituirsi a loro.
E anche il tema dell'inganno, che qui diventa inganno davanti all'evidenza, è un motivo frequentato in passato dal regista, basti pensare a Shutter Island (2010) o ancora lo stesso Casinò (1995). In questa pellicola Scorsese ribadisce la sua grande capacità di raccontare la macrostoria partendo da una microstoria che ne narra un episodio illuminante, come accade quasi sempre nella sua filmografia, ma recentemente soprattutto nello strepitoso Silence (2016).
A tutto questo si aggiunga la solita ottima regia e le interpretazioni di due giganti come Leonardo DiCaprio e Robert De Niro, i cui frequenti dialoghi sono dei pezzi di bravura già isolati dal contesto, ma che in una pellicola come questa diventano cabochon incastonati nel metallo prezioso. E se De Niro è ormai una maschera di se stesso e dei suoi personaggi, DiCaprio è ancora nell'acme della sua carriera, con un personaggio non esattamente scaltro, poco furbo, molto bello e facilmente manovrabile, che con l'avanzare della pellicola, grazie alla mandibola sporgente, occhieggia al Marlon Brando de Il padrino (Coppola 1972).
Ernest Burkhart (DiCaprio) - l'unico personaggio assente nel libro - è un giovane appena tornato dalla Prima guerra mondiale, dov'era arruolato come cuoco delle truppe, che approda nella città di Fairfax in Oklahoma, dove lo zio William K. Hale (De Niro), che si fa chiamare il re, è il vice sceriffo nonché l'uomo più influente della comunità, una comunità dominata dalla ricchezza degli indiani Osage e del loro petrolio. Hale è un latifondista apparentemente liberale con tutti, pellerossa compresi: ne ha imparato la lingua, i rituali, si mostra amico di molti di loro, ma in realtà punta alle loro proprietà e truffa sistematicamente  le assicurazioni.
La sua filosofia è tutta nelle parole che dice al nipote: "se vuoi fare errori, fallo in grande". E in effetti ogni mezzo è lecito per ottenere ciò che desidera e, in quest'ottica, anche i matrimoni seguono logiche da ancien regime.
Ad Ernest, non intelligente ma bello, lo zio propone di sposare la "sangue puro" Mollie (Lily Gladstone), così come ha già unito il fratello del ragazzo, Byron (Scott Shepherd), con un'altra sorella indiana ed ereditiera, Minnie (Jillian Dion). Ernest e Mollie si innamorano anche, ma vivono la loro storia all'interno di un contesto totalmente manovrato e corrotto, in cui si ritrovano coinvolti tutti, le altre sorelle di Minnie e Mollie, Reta e la ribelle Ann (Cara Jade Myers), e persino chi viene chiamato ad indagare dal consiglio tribale, l'investigatore Will Burns. A far da cornice a tutto questo, altre due realtà allora ai primi vagiti: da una parte la massoneria, dall'altra l'FBI, di fatto le due protagoniste del processo a cui è dedicata un'importante parte del film, in cui fanno la loro comparsa altri importanti attori, come Jesse Plemons, nei panni dell'agente federale che inizia a far luce sulla vicenda, John Lithgow, in quelli del pubblico ministero Leaward, e Brendan Fraser, il W.S. Hamilton della difesa.
Come sempre, con Martin Scorsese, il cinema e la sua storia si percepiscono ad ogni sequenza. L'arrivo di Ernest alla stazione di Fairfax è un omaggio al cinema di frontiera e quando la mdp si alza il pensiero va subito all'arrivo di Jill a Flagstone in C'era una volta il West (Leone 1968, vedi), tanto più che il ragazzo, quando arriva nella proprietà di Hale, abbraccia lo zio mentre la mdp gli gira attorno come nel celeberrimo bacio circolare di Vertigo (Hitchcock 1958). E ancora più nelle corde della cinefilia scorsesiana la sequenza in cui, dopo una rapina andata male, vediamo proprio il Re di Fairfax, seduto nella poltrona di un cinema, mentre guarda un western dell'epoca del muto, forse persino il più famoso di inizio Novecento, il mitico The Great Train Robbery (Porter 1903).
La regia si fa notare anche nelle sequenze iniziali, che ci spiegano il contesto storico e ci mostrano un po' di storia della fotografia, con gli scatti che ritraggono i ricchi indiani negli studi di posa dei primi fotografi, ma anche le tante morti palesemente dolose di molti di loro, passate inosservate e senza indagini, grazie a polizia e giornali conniventi. Il resto lo sappiamo grazie all'espediente narrativo del libro sulla storia della nazione Osage che Hale presta ad Ernest, un frammento quasi documentaristico, memore dello studio che Scorsese ha fatto sulla cultura Osage andandone a conoscerne sul posto i rituali, i valori e gli eredi rimasti. Proprio in questa sezione del film inoltre, apprendiamo che i fiori del titolo sono quelli viola delle colline di Wah-kon-tah, che a maggio lasciano spazio ad altre piante. La similitudine, per contrasto, è fin troppo evidente: anche gli indiani Osage lasciarono spazio a chi venne dopo, ma non certo seguendo il corso naturale delle cose.
Tanti i movimenti di macchina che rubano l'occhio. Penso soprattutto al piano sequenza che inizia quando Byron si alza dopo aver dormito nel tipico portico di una casa statunitense di quell'epoca e, sistematesi le immancabili bretelle, entra in casa: la mdp riprende in soggettiva quello che lui vede e si muove insieme a lui, attraversando i diversi ambienti della casa.
Lo stesso vale per la splendida carrellata indietro che, durante le nozze di Ernest e Mollie, parte dalle spalle di Hale, che inizia a parlare in lingua indiana, per poi inquadrare l'intera piana in cui si sta svolgendo la festa.
E poi ellissi (come nel racconto di un vecchio che in pieno giorno ricorda quanto avvenuto in quel luogo durante una notte), esplosioni notturne, incendi epici che vengono inquadrati attraverso la deformazione dei vetri smerigliati, e soprattutto la narrazione che, nel suo momento più difficile, si trasforma in un dramma radiofonico, con rumoristi e con il consueto cameo di Martin Scorsese, che sostituisce così quello che di solito nei film viene lasciato a semplici cartelli riassuntivi.
Oltre al genio di Scorsese, infine, la pellicola deve tanto alla calda fotografia di Rodrigo Prieto, alle minimaliste musiche di Robbie Robertson, discendente da parte di madre da nativi americani, e ancora di più alla scenografia di Jack Fisk, storico scenografo di capolavori come Carrie (De Palma 1976), Eraserhead (Lynch 1977) o Il petroliere (Anderson 2007), che condivide l'epoca della pellicola di Scorsese, ma soprattutto braccio destro per quasi l'intera filmografia di Terrence Malick, da La rabbia giovane a Song to song (2017).
Con Killers of the Flower Moon, Martin Scorsese, che lo ha definito un film incentrato su "amore, fiducia e tradimento", ci ricorda per l'ennesima volta che le logiche di potere calpestano tutto e tutti e quel "la gente dimentica", che Hale scandisce chiaramente al nipote in una delle scene madri, è in realtà proprio quello che il regista statunitense tenta di abbattere: la gente non deve dimenticare e se il cinema può contribuire a questo, oltre che all'arte, fa un grande servizio alla società. 

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