venerdì 10 aprile 2020

Hard to Be a God (German 2013)

È il sesto e ultimo film di Aleksei Yuryevich German, morto proprio nel febbraio del 2013, che ha lavorato a questo progetto per quattordici anni, con ben sei di riprese, completato dalla moglie Svetlana Karmalita e dal figlio Aleksej Alekseivič... il risultato è una pellicola strabiliante, difficile, visivamente superlativa, capace di unire elementi come Medioevo, fantascienza, crudo realismo, toni grotteschi, horror vacui e nonsense.
La pellicola è un adattamento dell'omonimo romanzo Trudno byt' bogom (1964), uscito in Italia col titolo di È difficile essere un dio (Urania n. 1109, 1989), scritto dai fratelli Arkadij e Boris Strugackij, che al cinema hanno regalato un capolavoro enorme, poiché dal loro Picnic sul ciglio della strada (1972) deriva Stalker di Andrej Tarkovskij (1979).

La vicenda narra di un gruppo di scienziati inviato sul pianeta Arkanar, dove l'età che per la Terra (ma sarebbe meglio dire l'Europa) è stata il Rinascimento viene rifiutata nella sua vitalità artistica, scientifica e letteraria, preferendole un ancoraggio al Medioevo. Proprio per questo intellettuali, pittori e scultori, "che hanno la colpa di creare la realtà con pietre e pittura", e chiunque possa allontanare la popolazione da quello status quo, vengono uccisi e, nella capitale Arkenaz, è stata persino distrutta l'università.  
La società è divisa in classi per colori: i Rossi sono i principi, i Dorati, i Grigi e i Neri la plebe. I Grigi, inoltre, guidati da Don Reba (Aleksandr Čutko), rappresentano la milizia che va a caccia di eretici, cioè quelli che potrebbero elevare la cultura dei contadini, ennesimo riferimento non troppo velato al regime sovietico durante il quale venne scritto il romanzo.
Uno degli scienziati, Don Rumata (Leonid Jarmol'nik), novello Kurz conradiano in versione medievale e grottesca, è considerato un dio da buona parte della gente intorno a lui, ma su di loro non ha lo stesso controllo del suo illustre precedente, anzi, viaggiando in groppa ad un asino può anche capitare che la folla, non esattamente devota, gli urli contro "fatti scopare dal tuo asino", o che, mentre suona una sorta di sassofono-clarinetto, un bambino passi di lì chiedendo al padre "ti piace questa musica? A me fa venire il mal di pancia". Non c'è spazio nemmeno per la musica ad Arkanar, è inevitabile.
All'inizio una voce off, che ci accompagnerà anche lungo il corso della storia, racconta l'antefatto, ed è solo così che lo spettatore viene a conoscenza di quella trama fantascientifica altrimenti impercettibile nel film. Di narrazione, poi, è davvero difficile parlare, poiché il film è fatto di immagini, sensazioni visive, tattili, persino olfattive in alcuni momenti, e non è mai un profumo, ma una puzza mefitica e nauseabonda.
Il resto è un continuo alternarsi di personaggi variegati, rincorsi da lunghi piani sequenza, tra cui nani con ali da Icaro, folli, gobbi, storpi, uomini laidi, come il Barone Pampa (Jurij Curilo), figure ambigue, che rimandano immediatamente all'immaginario medievale e soprattutto a quello pittorico fiammingo, da Bosch a Bruegel il Vecchio su tutti. Persino l'unica scena di sesso è grottesca e per nulla rasserenante, tra ostacoli, inutili presenze, cinture di castità, incidenti, che rovinano tutto lasciando Rumata a bocca asciutta.
Piove sempre su Arkanar, come nella Los Angeles di Blade Runner, ma rispetto al capolavoro di Ridley Scott, in cui la pioggia è fredda e asettica, qui sembra mescolarsi alla terra e contribuisce all'immagine sporca e melmosa che caratterizza l'intero film. È lo stesso fango in cui, nel corso della pellicola, si vedranno corpi e teste, come nel VI canto dell'Inferno, uno dei tanti momenti che rimandano all'immaginario medievale, come quello in cui i cadaveri aperti perdono le interiora ("giratelo, così la merda cade giù"), squarciati come il Maometto dantesco con " 'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia"  (If. XXVIII, 26-27).
Don Rumata, di cui spesso condividiamo lo sguardo attraverso lunghe soggettive, sarebbe nato dalla bocca del dio Goran, stando alla leggenda popolare riportata dal narratore, ma, ad esempio, questo non gli vieta di mangiare con le mani, e quasi grufolando, da una tavola imbandita con ogni prelibatezza, su cui la mdp indugia rimanendo col punto di vista basso, all'altezza dei cibi e dei bicchieri, ed è l'attore a scendere invece che la cinepresa a salire, entrando a far parte di quella incredibile natura morta.
I primi piani sono una costante, ma sono primi piani disturbanti, spesso a pochi centimetri dal corpo degli attori, claustrofobici - non a caso si è parlato di "implosione spaziale" - e raramente ci permettono di comprendere ciò che c'è attorno, anche se in quei casi vediamo di tutto: paludi, valli, cortili fangosi e un piccolo forte delimitato da palizzate che sembra uscire dal cinema di Akira Kurosawa. Il tutto fotografato, in un bianco e nero ricco di tutte le gradazioni di grigi, con un'attenzione e una resa eccezionale, di cui sono massima espressione lame di luce e il fuoco accesso che si fanno spazio nel buio della sera.
La mdp così vicina ai dettagli ci fa apprezzare espressioni facciali e costumi indossati, con armature chiaramente diverse e senza nessun contatto con la cronologia o la geografia a cui siamo abituati: celate, cappelli di ferro (bellissima un'inquadratura dall'alto con questi elmi in testa a tutti i soldati), cotte di maglia, per noi medievali e quattrocentesche, ma anche pezzi alla unghera, con lamelle sovrapposte, golette, armature orientali, più tarde; oppure picche, spadoni a due e, allo stesso tempo, spade con guardia e controguardia già cinque-seicentesche. Questa logica cronologicamente ibrida è ravvisabile nello stesso Don Rumata, equipaggiato perlopiù con armi rinascimentali, ma che in una sequenza utilizza un elmo con corna vichinghe per uccidere uno studente! Pur sentendosi un dio, Rumata infatti sa di non poter ribaltare l'ordine costituito, ma almeno salverà uno dei saggi, il dottor Budach (Evgenij Gerčakov), che rappresenta ciò che resta della poesia sul pianeta.
Direttamente dal nostro XIII secolo, infine, arriva l'immagine bellissima di un cavaliere con un girifalco sul braccio dotato di chaperon, il tipico cappuccio fatto indossare ai rapaci per la falconeria tanto amata da Federico II di Svevia.
Anche le torture rimandano ad un immaginario medievale, con intellettuali impiccati "come foglie autunnali", una grande struttura lignea a cui sono legati decine di prigionieri che avanzano in gruppo in questo modo, e una macchina per uccidere prostitute con un enorme fallo di legno che lascia poco all'immaginazione anche se non lo vediamo all'opera.
Che non siamo però nel nostro Medioevo lo dimostrano alcuni personaggi dai quali sentiamo citare Leonardo da Vinci, il barone di Munchausen e persino l'Amleto, ma nella versione di Borìs Pasternàk, segno definitivo che siamo almeno all'altezza del Novecento terrestre, come suggerisce l'epoca del romanzo.
Resta, però, il racconto di una società dominata dall'homo homini lupus hobbesiano, davvero senza tempo...
Il premio postumo alla carriera conferito a German al Festival di Roma 2013, quando venne presentato Hard to Be a God, è un piccolo ma strameritato omaggio a questo cineasta.

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