sabato 17 febbraio 2018

The Post (Spielberg 2017)

Steven Spielberg e la noia del compito ben fatto ma privo della pur minima brillantezza.
La versione doppiata in italiano è un disastro, ma quella in lingua originale non stravolge il giudizio sul film, che resta ben girato, ben recitato e con una storia che andava raccontata, ma noioso e scontato, utile più ad una scuola di cinema che voglia insegnare gli schemi sugli sviluppi di una trama che allo spettatore in sala che vorrebbe essere avvinto o almeno intrigato...
Potrebbe rischiare di essere considerata blasfemia cinematografica, ma anche Tom Hanks e Meryl Streep - stavolta meglio lui di lei - non vanno oltre un'interpretazione standard, senza particolari acuti, e la musica di John Williams, convenzionale come non mai, contribuisce all'esito della pellicola, a caccia di Oscar ma non certo di novità, se non nella bellissima locandina, categoria, però, ancora non inserita tra i premi assegnati dall'Academy Award (trailer).

Spielberg inizia il film con una sequenza di guerriglia nella jungla del Vietnam: siamo nel 1966 e un'ellissi porta l'analista militare Daniel Ellsberg da quel luogo, dove batte a macchina ciò che avviene davanti ai suoi occhi, ad un aereo dove relaziona quello che ha visto al ministro della Difesa. Sarà proprio Dan a scovare anni dopo i documenti riservati del governo, che rivelano la consapevolezza dell'inutilità della guerra nel sudest asiatico, dove la sconfitta degli Stati Uniti era di fatto già certa per il governo sin dal 1965, quando alla Casa Bianca c'era ancora Lyndon Johnson (1963-69) e non Richard Nixon (1969-74). Si tratta dei cosiddetti Pentagon Papers. Neanche a dirlo, la cinefilia del regista spinge ad ambientare la sequenza in cui Dan e altri suoi complici fotocopiano quei fogli all'interno di un cinema e dei suoi uffici (tra i poster si vede quello di Blob - Yeahworth 1958).
È questa la premessa narrativa che introduce i due protagonisti: ora è il 1971 e Katharine Graham (Meryl Streep), donna rimasta vedova che dal marito ha ereditato la proprietà del Washington Post, e Ben Bradlee (Tom Hanks), direttore del giornale, fanno il proprio meglio per migliorare le sorti del quotidiano della capitale statunitense.
In questo contesto Neil Sheehan, corrispondente per il New York Times diretto da Abe Rosenthal (Michael Stuhlbarg), pubblica un articolo sui Pentagon Papers, che quelli del Post ammirano con una certa invidia. Una delle sequenze più intense del film è proprio la corsa di Ben e altri due colleghi all'arrivo in edicola del quotidiano rivale all'alba, con un vento drammatizzante non certo casuale.
In realtà, però, il giornale newyorchese sfrutta solo in minima parte il materiale scoperto da Dan, e sarà proprio il quotidiano diretto da Ben ad approfittare di quei 47 volumi di segreti di Stato per dare seguito allo scandalo, scegliendo, invece di essere amici dei potenti, di fare davvero i giornalisti come dichiara in un'altra sequenza il personaggio interpretato da Tom Hanks.
Ma le scene scontate non finiscono qui, poiché Spielberg non rinuncia ad almeno altri due topos del cinema statunitense: il montaggio con cui racconta la lunga messa in ordine dei 4000 fogli dei rapporti McNamara, sorta di rompicapo a cui lavorano in gruppo diversi membri della redazione a casa di Ben (come se si trattasse di una ricerca da portare al liceo); ma soprattutto il momento "epico" delle rotative che stampano il  quotidiano con la mdp che segue l'intero procedimento fino alla partenza dei camion che distribuiscono le copie nel Paese. Naturalmente il commento davanti alle rotative in azione è quello di Katharine, che cita a Ben la retorica frase del marito defunto: "sai come chiamava Phil le notizie? La prima bozza della storia"
Ancora più prevedibili le scene su misura per Meryl Streep: la sua Katharine prima piange con la figlia (avevate dubbi?) rivangando il passato, e poi deve decidere se mandare in stampa il giornale e rischiare lo scontro con il governo, in una telefonata che il regista trasforma in una moderna "conference call" a più persone. Suspense per una scelta che inevitabilmente già conosciamo, ma indubbiamente girata con maestria e con la mdp che ruota attorno alla protagonista.
La telefonata in questione arriva durante una festa a casa di Katharine Graham, costretta ad interrompere il suo discorso agli invitati... la diva, come da copione, passa da una scena in cui è al centro dell'attenzione ad un'altra.
Il film, date le caratteristiche della storia, è inevitabilmente privo di azione e la trama scorre grazie ai dialoghi che si svolgono a telefono, durante le feste e nella redazione del giornale.
Proprio qui la mdp dà il meglio di sé, muovendosi con carrelli all'interno del grande open space e insinuandosi tra le scrivanie. Nello stesso luogo Spielberg mette in scena anche una divertente gag che vede protagonista uno dei redattori meno in vista del Post, a cui per caso viene destinato il pacco con i fogli dei Pentagon Papers: è lui a portarli in direzione, dove però viene bellamente ignorato da tutti per diverso tempo, fino alla grande sorpresa che chiude la sequenza.
Che Spielberg sappia girare non ci sono dubbi, ma da lui ci saremmo aspettati qualcosa di più che una regia e una struttura già vista e rivista e con due dei più grandi divi del cinema moderno che non vanno oltre il compitino, senza appassionare mai.
The Post, nel raccontare la storia degli Stati Uniti di quegli anni, costituisce lo stanco prequel di Tutti gli uomini del presidente (Pakula 1976) e ad un classico come quello interpretato da Robert Redford e Dustin Hoffman deve molto... se non l'avessero già girato saremmo certi che il prossimo film di Spielberg sarebbe stato sul Watergate!

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