venerdì 14 aprile 2017

L'altro volto della speranza (Kaurismaki 2017)

Orso d'oro a Berlino per la miglior regia, il film è caratterizzato dalla consueta leggerezza surreale di Aki Kaurismaki e dal suo stile riconoscibilissimo, anche grazie alla collaborazione del suo storico direttore della fotografia, quel Timo Salminen che con immagini dai colori sempre saturi lo accompagna sin dall'esordio (Delitto e castigo 1983), e alla scenografia di Markku Pätilä costantemente al di fuori del tempo, come dimostra un commissariato in cui si scrive ancora con la macchina da scrivere, e il computer è relegato a funzioni secondarie...

La pellicola è strutturata con un montaggio alternato incentrato su due personaggi: Khaled Ali (Sherwan Haji) è un cittadino siriano fuggito da Aleppo, dove faceva il meccanico e dove la guerra ha ucciso tutta la sua famiglia, fatta eccezione per la sorella di cui ha perso le tracce durante la fuga che l'ha portato dalla Siria in Turchia, dalla Grecia alla Macedonia, dalla Serbia all'Ungheria e, infine, nelle repubbliche baltiche da cui è approdato in Finlandia; Waldemar Wikstrom (Sakari Kuosmanen), invece, è un finlandese di mezza età che, dopo aver lasciato la moglie e il lavoro di commerciante di camicie, decide di rilevare un ristorante.
Le vite dei  protagonisti si incontrano in due momenti: solo per un attimo all'inizio del film, quando Waldemar rischia di investire Khaled, e più avanti, quando Waldemar aiuta Khaled dandogli lavoro nel suo ristorante per proteggerlo dal rimpatrio. Da quel momento in poi il montaggio alternato non avrà più ragione d'essere e la storia andrà avanti seguendo le vicende che coinvolgono entrambi.
Tutto è completamente alla Kaurismaki, a cominciare dalle sigarette, sempre in bocca ai personaggi e a riempire i posacenere; e poi, ci sono le sue scene silenziose, perché per lui "la parola è per la letteratura, il cinema è fatto di immagini". 
Il momento in cui Waldemar va via di casa è una di quelle: nel completo silenzio l'uomo poggia le chiavi dell'appartamento e la fede sul tavolo, davanti alla moglie che lo guarda attonita con i bigodini in testa e che immancabilmente fuma e getta la fede tra i mozziconi. Waldemar lascia anche il lavoro ed è incitato a gettarsi nella nuova avventura anche da una conoscente, interpretata dall'attrice feticcio del regista Kati Outinen, a cui spetta una delle migliori battute del film, con la quale ribadisce quanto sia redditizio aprire un ristorante, perché "le persone bevono quando le cose vanno male e bevono ancora di più se le cose vanno bene".
A Kaurismaki non interessa il realismo che rallenta la trama, cosicché lo stesso Waldemar vince il denaro con cui può iniziare la sua nuova attività andando a giocare a poker in un improbabile circolo esclusivo contro quelli che sembrano uomini potenti, di cui il regista però non ci dirà assolutamente nulla.
I personaggi di contorno sono perfetti: tra questi si pensi all'agente commerciale, da cui Waldemar si reca per fare richiesta di un ristorante e che si vanta di come i rapporti con le autorità nel suo settore siano tutto, mentre nell'ufficio delle tasse egli stesso è "di famiglia"... il dettaglio della cravatta decorata con il motivo ripetuto della stella di David rende tutto sottilmente ironico; lo stesso vale per i tre dipendenti del ristorante, Calamnius (Ilkka Koivula), Nyrhinen (Janne Hyytiäinen), Mirja (Nuppu Koivu), che, nonostante le diffidenze iniziali, asseconderanno il nuovo direttore in tutti i tentativi di dare una nuova veste al ristorante, che arriverà persino a trasformarsi in giapponese, in una scena divertente che toglie il sorriso anche ai turisti nipponici costretti a mangiare un terribile sushi fatto con più salsa wasabi che pesce, peraltro sostituito da aringhe sotto sale. 
Su tutti, però, spicca Calamnius, sindacalista che si interfaccia con il nuovo direttore in maniera confidenziale "come la chiamano gli amici?" ricevendo un secco "io non ho nessun amico", ma quando poi lo sente dire "sono l'ultimo degli ultimi" la sua espressione accompagnata dalla battuta "nel caso cosa sarei io?" è davvero esilarante. 
Kaurismaki si diverte a giocare con il manuale di tecnica cinematografica e con la storia del cinema: la musica off può diventare diegetica grazie alla presenza di un chitarrista di strada che suona alla stazione; Nyrhinen, il cuoco del ristorante, pulisce un vetro con un panno, ma poi ci fa passare un braccio dimostrando che non c'è nessun vetro, in una scena degna dei fratelli Marx. Ed è lo stesso personaggio ad incedere con il mestolo in spalla, ostentato come il bastone di Alex di Arancia meccanica (Kubrick 1971), mentre quando Khaled e il suo amico iracheno escono per andare in un bar ad ascoltare un po' di musica folk finlandese (altro elemento immancabile in Kaurismaki), si imbattono in un barista gigante che ricorda non poco quello dell'Overlook Hotel di Shining (Kubrick 1980).
La stessa entrata in scena di Khaled è metacinematografica: lo vediamo emergere da un cumulo di carbone nel porto di Helsinki, anche lui nel completo silenzio, e lo seguiamo in tutte le sue prime azioni da profugo arrivato in terra straniera, come un personaggio del primo Roman Polanski, e penso soprattutto a Due uomini e un armadio (1958), con cui il film finlandese condivide l'idea di fondo della discriminazione sociale. 
E, in effetti, Khaled è discriminato da molti cittadini finlandesi, che perlopiù lo ignorano e, quando qualcuno si interessa a lui, si tratta di un gruppo di neonazisti che per ignoranza lo credono un ebreo (le loro giacche di pelle con su scritto Finland Liberation Army li rende risibili quanto basta), proprio lui che alla polizia si professa ateo da quando ha subito la guerra in casa propria e ha visto morire la sua famiglia. 
La giustizia finlandese, inoltre, decide di rifiutargli l'asilo politico e di metterlo sul primo aereo per rimpatriarlo perché ritiene non ci siano rischi ad Aleppo, anche se in quei giorni i telegiornali mostrano quotidianamente le bombe sulla città sostenute dal governo russo. Il regista, però, e noi con lui, è dalla parte dei barboni che mettono in fuga gli skinhead già pronti con benzina e accendino; con l'infermiera che gli apre le porte prima che la polizia venga a prenderlo; con il giovane cugino di Calamnius che gli stampa un documento d'identità; con Waldemar e i suoi dipendenti, che lo accolgono. 
C' è tanta critica politica e sociale ne L'altro volto della speranza, ma Kaurismaki lo fa con un tocco così leggero da doverla andare a scovare tra le pieghe di una pellicola riuscita e piacevole, che commuove senza scadere nel patetismo.

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