venerdì 4 aprile 2025

Il seme del fico sacro (Rasoulof 2024)

Il film di Mohammad Rasoulof è un film straordinario!
E lo è per tanti motivi. Racconta l'Iran e il suo regime fondato su un patriarcato la cui base, ammantata di religione, controlla la società; la ribellione femminile che parte dalle nuove generazioni e, quindi, l'inevitabile scontro generazionale. Lo fa con una struttura che inizia come un dramma familiare per poi passare a toni politici e psicologici degni di una spy story, e infine si trasforma in un thriller con qualche tocco di horror (con tanto di citazione ormai più famosa del film stesso, da Carrie, De Palma 1976).
La pellicola ha una frase in exergo che dà spiegazione al titolo: "il Ficus Religiosa è un albero con un insolito ciclo di vita (trailer). I suoi semi, contenuti negli escrementi degli uccelli, cadono su altri alberi. Le radici aeree spuntano e crescono fino al pavimento. Quindi, i rami si avvolgono attorno all'albero ospite e lo strangolano. Infine, il fico sacro si regge da solo".
L'allegoria è potente e dà il senso dell'assioma che lega mentalità, governo e religione del regime iraniano: idee da rifiutare (gli escrementi) che invece, grazie ai funzionari del regno (gli uccelli), crescono e si radicano così tanto da distruggere la società (l'albero strangolato) e rimanere lì come totem inscalfibili (il ficus religiosa).
Il funzionario di turno è Iman (Misagh Zare), appena diventato giudice istruttore, un avanzamento di carriera arrivato perché, scoprirà presto, il suo predecessore si è rifiutato di firmare una condanna a morte senza le necessarie indagini. Sua moglie Najmeh (Soheila Golestani) è la perfetta compagna di un uomo ambizioso in quel contesto: ritiene pleonastici gli scrupoli del marito dal momento che le decisioni le prende qualcuno al di sopra di lui, convinta che eseguire gli ordini non comporti responsabilità di sorta. Inoltre vede in quell'ascesa, che già prefigura anticamera della nomina a giudice, la possibilità di realizzazione dei propri sogni borghesi: una nuova lavastoviglie, nell'immediato, e una casa "con tre camere" a stretto giro.
Le due figlie della coppia, Rezvan (Mahsa Rostami) e Sana (Setareh Maleki), sono abbastanza grandi per capire quello che sta succedendo in Iran e per patire la condizione femminile: all'università la prima, adolescente la seconda, grazie a qualche amica e al web si rendono conto che la televisione (che in un tg cita persino Giorgia Meloni) è il mezzo di comunicazione meno affidabile per seguire le notizie ed entrano in conflitto con la madre, l'unica con cui hanno contatti quotidiani, dato che il padre è sempre più impegnato. Ma la madre, che ripete loro che "la famiglia deve essere la vostra priorità", chiede di usare meno i social, data la posizione attuale del padre, e di evitare attentamente ogni occasione di protesta a scuola o nelle strade. Fatalmente, però, proprio la migliore amica di Rezvan, Sadaf (Niusha Akhshi), verrà coinvolta negli scontri...
A Iman viene data una pistola, ulteriore segno che il compito assegnatogli non è privo di rischi, e la sua iniziale onestà, che lo porta a sentire la pressione di dover prendere decisioni importanti per la vita altrui senza una parvenza di giustizia, viene annichilita non solo dalla moglie, ma anche dal collega Ghaderi (Reza Akhlaghi), che gli fa capire presto quanto il capo non ami chi discute gli ordini.
D'altronde i soldi in più presuppongono qualcosa di scomodo da fare e, per reprimere il dissenso, i numeri dei condannati devono aumentare e sempre più in fretta (fino a 300 casi al giorno).
Nonostante gli "abbasso la teocrazia" e omicidi camuffati da ictus, la vita iraniana va avanti secondo la legge di Dio inventata dagli uomini per controllare e governare le persone, laddove basta opporsi all'hijab per essere picchiate o persino uccise. Tutto questo, però, il bellissimo e claustrofobico film di Rasoulof ce lo mostra da lontano, negli schermi dei cellulari e dei televisori, dai rumori oltre le finestre, perché ciò che gli interessa raccontare è la ripercussione delle idee all'interno di un nucleo familiare, che implode, si corrode dall'interno.
Di questo vediamo gli unici momenti di serenità attraverso vecchi filmati di vacanze, poiché l'escalation della carriera di Iman è direttamente proporzionale all'infelicità di una famiglia in cui si perde pian piano il sorriso e soprattuto la fiducia reciproca. Più gli eventi di susseguono, infatti, più nessuno si fida di nessuno. E, quando la pistola di Iman scompare, il rischio di perdere tutto (anche se nulla di necessario) è così alto, che il pater familias si prenderà il diritto di far interrogare le figlie - a suo avviso colpevoli di aver subito il lavaggio del cervello da amici e dal web -, facendolo passare "come una seduta di psicoterapia". Solo da questo momento Najmeh, pur accettando le folli imposizioni del marito, inizia finalmente a storcere il naso: il sistema interno è saltato, vittima di quello esterno. La più tipica dinamica manichea del "noi e loro" ha creato una contrapposizione che non può essere più sanata (e sull'argomento si veda il recente e splendido Noi e loro, Coulin 2024).
Il crescendo di atteggiamenti paranoici e complottisti di Iman non si arresterà più e, complice la pubblicazione dei suoi dati su internet, cercherà di isolare la famiglia da tutto: oscurando gli smartphone di Najmeh, Rezvan e Sana, e rifugiandosi lontano da Teheran, nella vecchia casa di paese in cui è cresciuto. Qui la pellicola, diventando prima un road movie e poi, come già accennato, un thriller-horror, riesce a inchiodare lo spettatore alla poltrona, nonostante le quasi tre ore di durata, necessarie proprio a questa impennata finale, girata in maniera sensazionale tra la casa, gli spazi sotterranei e quelli del paese antico abbandonato, fatto di roccia rossa e insenature perfette per la trama del film, che in quello specifico momento sembra persino un western.
Tutto è girato benissimo e la tensione è sempre al massimo, orchestrata anche attraverso l'utilizzo dei mezzi che simboleggiano lo scarto generazionale: persino musicassette e un vecchio stereo saranno basilari per la trama.
Iman si è ormai trasformato in un uomo di potere e il suo qualunquismo vede nei ribelli coloro che "approfittano del sistema e lo insultano", solo perché continuano a vivere nel paese in cui sono nati cercando di non arrendersi alla dittatura. In uno dei momenti di massima stanchezza, poi, prega, e gli sentiamo dire "mi sottometto a chi si sottomette a te... fino al giorno del Giudizio", parole che sintetizzano meglio di ogni altro commento la ferrea gerarchia religiosa che sovrasta tutto e regola la società nella teocrazia iraniana (e non solo).
D'altronde "il mondo è cambiato, ma Dio no" e "nella fede non ci sono domande", dice Najmeh alle figlie. 
Chi cerca sottomissione e obbedienza assoluta ha sempre qualcosa di intollerabile da affermare e far prevalere sul vivere civile. Pagare per ottenerla è il mezzo più comune, ma il sistema è così "a regime" (mai espressione più adatta) che spesso c'è chi si sottomette per incapacità di pensare ad altro... 

Nessun commento:

Posta un commento