Vincent Lindon è uno dei migliori attori europei e lo dimostra ancora una volta con questa intepretazione superlativa, che gli è valsa una strameritata Coppa Volpi come miglior attore protagonista.
Le sorelle bretoni Delphine e Muriel Coulin, al loro terzo lungometraggio di finzione (al loro attivo anche due cortometraggi e due documentari), scelgono l'attore come protagonista dell'adattamento di Quel che serve di notte, romanzo duro e struggente di Laurent Petitmangin (2020).Alla notte del libro, che può riferirsi nel particolare a un padre che non dorme per i pensieri che lo attanagliano e, più in generale, al tempo buio che tutti stiamo vivendo, il titolo originale del film preferisce un piuttosto anonimo Jouer avec le feu, che è, come in italiano, frase idiomatica che designa chi affronta un pericolo con troppa disinvoltura (trailer).
Per una volta, è il caso di dirlo, il titolo dell'edizione italiana coglie meglio l'essenza della pellicola, con un Noi e loro che si rifà al monologo più incisivo del film e che sintetizza una contrapposizione che è sempre volontà di scontro, laddove il nazionalismo sostituisce il vivere civile e annulla accoglienza e ospitalità, abbattute dalla paura dell'altro.
Con grande merito, e con una scelta pienamente condivisibile, il film a Venezia ha vinto anche il Leoncino d’oro, la rassegna che premia ogni anno l'opera con un maggior potenziale educativo. E di certo una pellicola come questa merita di essere vista nelle scuole e commentata insieme ai ragazzi.
Pierre (Vincent Lindon) è un operaio delle ferrovie francesi, ex sindacalista e attivista politico, da sempre socialista, come lo era suo padre. Ha dovuto rinunciare a molto di tutto questo, poiché ha perso la moglie per un cancro ed è rimasto vedovo con due figli: Felix (Benjamin Voisin), per tutti Fus (da fussball per il suo amore per il calcio), che ha appena superato i vent'anni, e Louis (Stefan Crepon), per tutti Lulù, appena maggiorenne e che, a differenza del fratello con un diploma da metalmeccanico, punta agli studi universitari.
La già complessa quotidianità familiare viene ulteriormente compromessa dalle amicizie di Fus, che inizia a frequentare sempre più spesso gruppi di estrema destra, con cui condivide le serate dopo le proprie partite, il tifo allo stadio tra gli ultrà del Metz e dei punti di ritrovo discutibili, come una fabbrica abbandonata, dove si svolgono incontri clandestini di lotta a mani nude.
I dubbi di Pierre sulla condotta del figlio si fanno più concreti quando un suo collega gli rivela di aver visto Fus strappare manifesti insieme a un gruppo di fascisti.
Da quel momento in poi Pierre si ritrova a camminare su un filo, tra l'istinto e le proprie convinzioni, tra la rabbia per quello che teme stia accadendo e la fiducia che vorrebbe comunque riservare al figlio. E sono i dubbi di un uomo che prova a essere coerente, quando la coerenza diventa una chimera, e che più avanti dirà "non voglio andare contro i miei principi". E così, si informa su internet, cerca video e foto degli ultrà del Metz, si scontra con Fus, ma allo stesso tempo lo abbraccia e con lui e Louis va allo stadio, in uno dei massimi momenti di condivisione dei tre.
Pierre galleggia tra l'amore che prova per il figlio in difficoltà e quello altrettanto forte per quello che non ha problemi se non trovare il modo di pagare l'affitto di un piccolo appartamento per andare a studiare alla Sorbona di Parigi. Fus è sinceramente felice per Louis, ma nei momenti di massimo conflitto col padre non può non urlare "resta con il figlio perfetto", una frase che rivela tutta la gelosia per il fratello che dà soddisfazione e serenità al genitore. Un motivo ancestrale della fratellanza, quest'ultimo, che rimonta fino a Caino e Abele al cospetto di Dio nella Genesi.
Fus ama e odia il fratello, ma col suo diploma da metalmeccanico si sente già "carne da macello", e vede la cultura come mezzo di allontamento dalla loro realtà e non di emancipazione, dividendo tra parigini e non, tra chi studia e non, in una facilità di creare dicotomie che è in fondo il pensiero elementare degli amici di estrema destra con cui si ritrova.
Fus ama e odia il fratello, ma col suo diploma da metalmeccanico si sente già "carne da macello", e vede la cultura come mezzo di allontamento dalla loro realtà e non di emancipazione, dividendo tra parigini e non, tra chi studia e non, in una facilità di creare dicotomie che è in fondo il pensiero elementare degli amici di estrema destra con cui si ritrova.
Fus dichiara apertamente di non credere nella giustizia - un pensiero che determina conseguenze - e persino il motto della Francia repubblicana, liberté, égalité, fraternité, diventa occasione di scherno: "per chi?" dice a brutto muso, chiosando su Louis "si crede il re perché ha studiato".
Molte le frasi di una sceneggiatura scritta dalle sorelle Coulin, ma che ovviamente tanto deve al testo di Petitmangin, che Lindon interpreta magnificamente. Per condannare il qualunquismo e la superficialità dei nuovi amici di Fus, che agli occhi del ragazzo sembrano essere solo dei giocosi guasconi, gli ricorda che "se dicono che non è politica, c'è da preoccuparsi", anche perché espressioni e striscioni come "la Francia ai francesi" e "tornino in Africa" parlano chiaro. E lo stesso Fus, in uno dei diverbi col padre urlerà "francesi si diventa, della Lorena si nasce", chiudendo sempre di più il cerchio dell'isolamento, che lo porta all'ancora più elementare "se non sei con noi, sei contro di noi" (tra l'altro mentre indossa un'imprevedibile maglietta del Pisa calcio).
In questi continui scontri, Lulù diventa inevitabilmente la figura di mezzo, che con i toni ben dosati critica sia i comportamenti del padre con Pierre, sia quelli del fratello con Fus.
E anche nel rapporto tra Pierre e Louis affiora la distanza generazionale e si manifesta in auto, luogo tipico di relazione padre-figlio, con Pierre che vede il ragazzo chino sul navigatore del cellulare e prorompe in un "dai più retta a quel coso che a me", che ogni figlio credo abbia sentito pronunciare al padre con una punta di gelosia per la tecnologia che lo sostituisce.
Va, infine, notato che un film come questo, indubbiamente un film in cui prevalgono sceneggiatura e recitazione, ha diversi dettagli in cui la regia e la struttura cinematografica rubano comunque l'occhio, rendendolo un'opera di gran valore anche da questo punto di vista. Questo vale per tanti dettagli, come la piccola porta da calcio con cui Vincent e i figli giocano in giardino, che all'inizio è appunto protagonista del divertimento dei tre; poi nel corso della storia viene inquadrata con la rete in parte staccata, segno del suo abbandono; e che ancora più avanti proprio Fus taglia per farne altro, simbolo della definitiva conclusione del gioco.
Le due stanze dei ragazzi, in casa, sono divise da un muro che permette di inquadrarle in una sorta di split screen naturale e proprio quell'inquadratura diventa segno del tempo, quando Pierre li rivede bambini nei rispettivi spazi, così come poi, quando Louis sarà a Parigi, ne sottolinea l'assenza.
Anche la sequenza all'interno della fabbrica/palestra è girata con grande maestria: in essa le immagini, il montaggio, il sonoro contribuiscono a un crescendo infernale, che trasforma gli astanti in animali in gabbia, che di fronte allo spettacolo di lotta non riescono a far altro che ululare aggrappandosi alle reti dell'arena con la bava alla bocca. Un'idea che tra le tante rimanda alla memoria una simile escalation che David Lynch aveva ideato per una puntata di Twin Peaks (vedi).
Ma, soprattutto, Noi e loro inizia con una danza tribale che si svolge al buio con la scena alternativamente illuminata da alcune fiaccole (il fuoco del titolo originale?). Sono delle immagini disturbanti, che mettono subito lo spettatore in una condizione di disagio che non può ancora comprendere e che contrasta con le prime scene della vicenda narrata, in cui Pierre porta Fus al campo di gara - e in auto corrono le note di People Have the Power di Patti Smith - , vede la partita e con orgoglio esulta a un suo gol.
Quelle immagini iniziali sono parte di un montaggio connotativo, quello che crea appunto il cosiddetto effetto Kulešov, che mette in allarme senza ancora un perché... tutto ciò che vedremo dopo sarà influenzato da quelle inquadrature e le porteremo con noi fino alla fine.
Per tutto il film condividiamo i dubbi, le incertezze e il dramma psicologico di Pierre, che confluiscono soprattutto nel monologo più importante del film, da cui l'edizione italiana ha ricavato il potente titolo: "quando si inizia a dire noi e loro e si odia chi è diverso da noi non può che finire male".
A questa, infine, voglio aggiungere un'altra frase iconica da cui sarebbe potuto scaturire un altrettanto adatto titolo del film: "il silenzio non è la soluzione... il silenzio non ci protegge... se non comunichiamo perché siamo diversi, allora hanno vinto loro".
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