La regia di Brady Corbet, Leone d'argento a Venezia, però, non dà nulla in più a questa storia: si limita a raccontarla senza grossi sussulti, limitandosi al compito di mettere in scena le diverse sequenze, giustapposte una dopo l'altra, con un montaggio lineare, anch'esso privo di scossoni, e con una visione passatista dell'artista solo e tormentato (trailer).
Eppure il film, girato in VistaVision, scorre velocemente, a volte anche troppo, rinunciando ad approfondire tanti aspetti. Le sue 3h30' non si avvertono ed è agevole seguire sullo schermo le vicende del protagonista, in cui sta la vera trovata della pellicola.
Il biopic su László Tóth, infatti, è una storia d'invenzione, trattata come se fosse reale: un falso di livello che, per dar forza alla suggestione, usa anche dei finti filmati documentaristici, affascinando senza dubbio lo spettatore. L'architetto, nato a Budapest, formatosi nella Bauhaus in Germania, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, che trova fortuna dopo alterne vicende negli Stati Uniti grazie a un magnate americano, non è mai esistito e la storia si ispira a innumerevoli casi di ebrei che hanno fatto un percorso simile, a cui, in questo caso, viene associata una bella storia di architettura.
Si potrebbe riassumere in una frase che The Brutalist porta la questione ebrea nel sogno americano che prende forma nell'architettura... e quale macrosistema migliore per rappresentare qualcosa che rimane?
László, peraltro, nei cui panni recita uno straordinario Adrien Brody, in un ruolo che non può non far pensare a quello interpretato ne Il pianista (Polanski 2002), lo dice chiaramente in una battuta del film, nella quale dimostra tutto il suo orgoglio perché le opere realizzate in Germania in stile Bauhaus rimarranno ben oltre il tempo delle follie del nazismo.
László Tóth, inoltre, è anche un nome ben noto, poiché fu il cittadino ungherese che, nella mattinata del 21 maggio 1972, sfregiò con un martello da geologo la Pietà di Michelangelo Buonarroti al grido di «Cristo è risorto! Io sono il Cristo!»
László Tóth, inoltre, è anche un nome ben noto, poiché fu il cittadino ungherese che, nella mattinata del 21 maggio 1972, sfregiò con un martello da geologo la Pietà di Michelangelo Buonarroti al grido di «Cristo è risorto! Io sono il Cristo!»
La pellicola, girata quasi completamente in Ungheria, si presenta sin da subito nella sua magniloquenza, con un'overture che divide le vite di László, fuggito dal campo di concentramento di Buchenwald e di sua moglie, Erzsébet (Felicity Jones), prigioniera in quello di Dachau, che rimarrà su una sedia a rotelle per la denutrizione di quegli anni.
La prospettiva centrale e angusta del piccolo spazio in cui vediamo la donna è l'unica immagine sui campi di sterminio nazisti dell'intero film.
Dall'altra parte László riesce a imbarcarsi per gli Stati Uniti e l'arrivo è segnato dall'apparizione della Statua della Libertà - significativamente inquadrata in soggettiva a testa in giù - e dall'immancabile tappa a Ellis Island, il centro di controllo dei migranti di New York chiuso nel novembre del 1954, da sempre un luogo iconico del cinema, per le tante sequenze che lo immortalano.
Dopo l'overture che ci racconta le prime difficoltà di inserimento del protagonista negli Stati Uniti, i titoli di testa scorrono lungo la strada - un po' come avveniva in Strade perdute, Lynch 1997, ma in maniera decisamente più anonima - che porta László a Philadelphia. Da qui la storia è divisa in due parti (L'enigma dell'arrivo - 1947-52 e Il nocciolo duro della bellezza - 1953-60), separate da un nostalgico intervallo "di contesto" di quindici minuti (con tanto di conto alla rovescia sullo schermo), e si chiude con un epilogo nel 1980, che corrisponde alla sezione citata del finto documentario, in cui László è l'ormai molto anziano architetto celebrato alla prima Biennale di Architettura di Venezia.
Dall'altra parte László riesce a imbarcarsi per gli Stati Uniti e l'arrivo è segnato dall'apparizione della Statua della Libertà - significativamente inquadrata in soggettiva a testa in giù - e dall'immancabile tappa a Ellis Island, il centro di controllo dei migranti di New York chiuso nel novembre del 1954, da sempre un luogo iconico del cinema, per le tante sequenze che lo immortalano.
Dopo l'overture che ci racconta le prime difficoltà di inserimento del protagonista negli Stati Uniti, i titoli di testa scorrono lungo la strada - un po' come avveniva in Strade perdute, Lynch 1997, ma in maniera decisamente più anonima - che porta László a Philadelphia. Da qui la storia è divisa in due parti (L'enigma dell'arrivo - 1947-52 e Il nocciolo duro della bellezza - 1953-60), separate da un nostalgico intervallo "di contesto" di quindici minuti (con tanto di conto alla rovescia sullo schermo), e si chiude con un epilogo nel 1980, che corrisponde alla sezione citata del finto documentario, in cui László è l'ormai molto anziano architetto celebrato alla prima Biennale di Architettura di Venezia.
László in Pennsylvania è ospite del cugino Attila (Alessandro Nivola), che ha rinunciato al cognome Molnar per un più anglosassone Miller, e ha fatto fortuna come venditore di mobili. Siamo nel 1948, lo capiamo dalla radio che annuncia la fondazione dello stato di Israele (14 maggio), e proprio in quei giorni László si imbatte nella famiglia van Buren, per cui realizza una magnifica biblioteca. Sulle prime, però, il rapporto con il ricchissimo Harrison Lee van Buren (Guy Pearce) non va bene, e László viene scaricato anche dal cugino. Dopo una breve parentesi da operaio, il giovane architetto verrà scovato da van Buren, che nel frattempo ha scoperto che l'uomo contro cui ha urlato è un nome importante sulle riviste di architettura in Europa, come esponente Bauhaus a Dessau, al fianco di Walter Gropius e Mies van der Rohe.
Diventerà così il suo mecenate, permettendogli di far arrivare sua moglie negli Stati Uniti, insieme alla nipote Zsófia (Raffey Cassidy), e, soprattutto, commissionandogli il lavoro della vita, una grande struttura di 2684 mq da costruire sulla collina della sua proprietà a Doylestown, in Pennsylvania, con auditorium, biblioteca, palestra e cappella in onore della defunta madre, Margareth.
Tóth ideerà un progetto che unisce le diverse funzioni, ridotte a tre per questioni economiche con l'eliminazione della biblioteca, in pieno stile brutalista, giustificando il titolo del film. L'idea più geniale sarà quella di una croce proiettata sull'altare della cappella grazie all'effetto della luce che colpisce la sommità dell'edificio quando il sole è allo zenith. Purtroppo, però, il complesso, costruito in parte e a più riprese, nel 1973 subirà l'ennesima interruzione, rimanendo definitivamente incompiuto...
Il sesso, declinato come scandalo e vissuto sempre al negativo, è uno dei motori delle vicende narrate. László viene allontanato dal cugino Attila non solo perché le cose si mettono male con van Buren, ma anche perché la moglie Audrey (Emma Laird) lo accusa di averla molestata, in una storia che occhieggia all'Ippolito di Euripide. In una sequenza, alquanto truffautiano-bertolucciana, i tre si abbracciano e László parla ironicamente di tricycle... La stessa Audrey critica László con un diretto "non sei come mi aspettavo" che offre il fianco alla risposta ad effetto, "neanch'io sono come mi aspettavo", che allude alle sofferenze patite, ma che resta in superficie.
Anche la rottura insanabile con Harrison è segnata da una violenza sessuale nei confronti di László. Tutto avviene nella splendida cornice delle cave di Carrara, dove i due sono per acquistare il marmo necessario al grande progetto architettonico nella tenuta in Pennsylvania e sarà Erzsébet, tempo dopo, a scatenare la propria collera contro van Buren. Messa alla porta in malo modo, l'unica ad aiutarla sarà la figlia di van Buren, Maggie (Stacy Martin), altro personaggio di cui non sappiamo nulla, messo lì a fare un po' da contorno.
Anche la rottura insanabile con Harrison è segnata da una violenza sessuale nei confronti di László. Tutto avviene nella splendida cornice delle cave di Carrara, dove i due sono per acquistare il marmo necessario al grande progetto architettonico nella tenuta in Pennsylvania e sarà Erzsébet, tempo dopo, a scatenare la propria collera contro van Buren. Messa alla porta in malo modo, l'unica ad aiutarla sarà la figlia di van Buren, Maggie (Stacy Martin), altro personaggio di cui non sappiamo nulla, messo lì a fare un po' da contorno.
Nella famiglia di industriali di origine olandese anche il figlio di Harrison, Harry (Joe Alwyn), si comporta in maniera spregevole con Zsófia, importunandola e vessandola, convinto che la sua posizione sociale sia un'incontrovertibile arma a favore del suo fascino.
László è figlio del suo tempo e lo vediamo entrare in un bordello newyorchese a inizio film, ma anche ricorrere all'eroina che da inizio Novecento divenne una piaga internazionale (nel 1905 solo a New York se ne consumavano due tonnellate e nel 1925 gli USA la proibirono).
Anche il sesso tra László e Erzsébet è un nodo complicato, lasciato nella nebbia dalla sceneggiatura, scritta dal regista con la sua compagna, Mona Fastvold: l'architetto, però, in una delle sequenze più estetizzanti, bacia la moglie a letto dopo averla coperta con il lenzuolo, proprio come faceva Orson Welles con Suzanne Cloutier/Desdemona nel suo indimenticabile Otello (Welles 1951).
Sesso a parte, il personaggio di Harrison si mette in evidenza più volte per la sua arroganza, con frasi contro gli afroamericani, che chiama "negri" con disprezzo, e contro gli italiani, a cui riserva una battuta doppiamente razzista: "ecco perché non faccio mai affari con gli italiani: sono gli ispanici d'Europa".
Dalla parte opposta, la sceneggiatura dà spazio al rapporto umano e amicale instaurato da László con il suo principale collaboratore, Gordon, vedovo afroamericano con un figlio adolescente, nonché con Orazio, l'uomo che a Carrara accompagna lui ed Harrison per le cave a scegliere il marmo, e che ricorda di aver fatto parte della resistenza, usando le pietre con gli altri compagni per colpire Mussolini e i suoi.
Terribile, invece, il confronto con Jim Simpson (Michael Epp), l'architetto messo dai van Buren alle calcagna di László, per limitare le spese e controllarne l'operato.
Terribile, invece, il confronto con Jim Simpson (Michael Epp), l'architetto messo dai van Buren alle calcagna di László, per limitare le spese e controllarne l'operato.
Anche la colonna sonora di Daniel Blumberg ha una certa magniloquenza, con oltre trenta brani originali di pianoforte e archi che accompagnano i diversi momenti del film, oltre i quali vanno almeno ricordati You are my destiny, la canzone portata alla ribalta da Paul Anka nel 1958, qui usata nella versione cantata da Mina, e One for you one for me (La Bionda, 1978), che ascoltiamo sui titoli di coda.
Alcune curiosità sulle opere che vediamo durante il film e che sono parte della strepitosa scenografia di Judy Becker, coadiuvata dall'arredatrice di scena Patricia Cuccia.
In una delle prime sequenze ambientate a Philadelphia, László mostra a Audrey un mobile che ha ideato, costituito da un originale insieme di scrivania-cassettiera-sedia, in cui tubolari curvilinei in acciaio si uniscono alle parti in legno, un'opera che tanto ricorda diverse creazioni di Marcel Breuer, architetto ebreo ungherese come il László del film, che lasciò la Bauahus nel 1928 per andare però a Berlino, dove aprì il suo studio di architettura, e poi in Inghilterra. E a confermare che Breuer sia stato fonte di ispirazione è stato lo stesso Brady Corbet, che ha detto di aver letto Marcel Breuer e un comitato di 12 persone progettano una chiesa, di Hilary Thimmesh (2011), oltre ad Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War di Jean-Louis Cohen (2011).
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La chaise longue del film e la 39 di Alvar Aalto |
La biblioteca, bellissima, con gli sportelli delle due ali di scaffalature che si aprono simultaneamente a 45°, è dichiaratamente ispirata alla sinagoga di Scarsdale, ancora di Marcel Breuer, ma allo stesso tempo ricorda tanto l'impostazione prospettica del Salk Institute for Biological Studies di San Diego, opera di Louis I. Kahn (1962), l'architetto ebreo estone che già nel 1906 emigrò negli USA stabilendosi proprio a Philadelphia, dove fondò il suo studio nel 1935 e dove insegnò architettura all'Università della Pennsylvania. Oltre a Brueur, è probabilmente lui l'altro principale riferimento per il protagonista di The Brutalist.
Per quanto riguarda, invece, l'edificio brutalista che László progetta per Harrison Lee van Buren, e soprattutto l'idea della croce che appare grazie al sole a mezzogiorno, il rimando non può che essere la Chiesa della luce realizzata a Ibaraki, nell'area metropolitana di Osaka, dall'architetto giapponese Tadao Andō (1989).
Infine, quando vediamo le persone cercare László con le torce, nelle fondamenta allagate del complesso, la suggestione visiva porta subito a pensare anche all'edificio più antico di questo excursus architettonico, la cisterna di Yerebatan a Istanbul, voluta dall'imperatore Giustiniano I e risalente VI secolo.
Sull'incompiutezza del capolavoro, che rende ancora più etereo e filosofico il senso dell'architettura di László, si può infine chiosare con la frase del Buffalmacco pasoliniano nel Decameron, che davanti al suo Giudizio Universale esclama: "perché realizzare un'opera, quando è così bello immaginarla soltanto?"
Sette Golden Globe, dieci candidature all'Oscar, non possono essere sottovalutate, ma resta l'amaro in bocca per un film "monumentale", come recita la sua locandina, che non riesce ad essere un capolavoro.
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