Così scriveva Shakespeare (Come vi piace, II, VII) e così sembra dirci Ferzan Özpetek in Diamanti attraverso Elena Sofia Ricci ("nella vita si recita sempre").
Il regista turco dedica la sua quindicesima pellicola a una storia corale completamente declinata al femminile, che coinvolge ben diciotto attrici italiane, oltre ad essere dedicata a tre grandi attrici recentemente scomparse con cui avrebbe voluto lavorare: Mariangela Melato, Virna Lisi, Monica Vitti. A tutto questo aggiunge una cornice in cui lui stesso e l'intero cast parlano del film da realizzare, tra scelta dei ruoli e lettura del copione. Cinema e metacinema, vita reale e recitazione, con una trama ben strutturata che sviluppa una storia per ogni personaggio femminile, in una coralità e un'intensità passionale che guarda da lontano a Robert Altman e a Pedro Almodovar (trailer).
In un film come questo, le interpretazioni sono pressoché tutto, e le tante attrici coinvolte non sfigurano, anche se, complice l'ambientazione, la presenza di alcune facce note soprattutto sul piccolo schermo e il tenore della sceneggiatura danno continuamente la sensazione di essere di fronte a un prodotto televisivo meglio confezionato del solito, con il pensiero che va subito a Il paradiso delle signore, sceneggiato televisivo RAI in onda dal 2015, che tanto poco ha di Al paradiso delle signore di Emile Zola (1883) a cui si ispira. In tutti e tre, però, il filo conduttore è l'abbigliamento e l'imprenditoria come mezzo per far fortuna.
All'idea della cornice narrativa non si chiede la novità, perché nulla mai è novità (pensate alle cornici de Le mille e una notte o del Decameron sin dal XIV secolo, ma anche a Schindler's List solo per fare un esempio cinematografico). Si chiede, però, che funzioni, e qui l'ottima idea iniziale va via via spegnendosi e il suo reiterato ricorso prende infine una deriva sentimentalista di cui il film avrebbe potuto senz'altro fare a meno.
Özpetek di fatto immagina e idealizza una storia anche per se stesso che, va ricordato, si oppose alla volontà paterna e si trasferì a Roma nel 1976, con la complicità della madre, per studiare storia del cinema. In quegli anni frequentò anche corsi di storia dell'arte e del costume all'Accademia di Costume e di Moda, e qui palesemente si identifica con il piccolo Simone (soprattutto nel finale), il figlio di una delle sarte, che viene spesso portato sul posto di lavoro e nascosto alle titolari.
La storia, ambientata a Roma negli anni '70, ruota attorno alla prestigiosa sartoria Canova, che da anni lavora per teatro e cinema, fondata e gestita da due sorelle, Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca), la prima indurita da una storia d'amore fallita tanti anni prima con l'uomo d'affari Leonardo Cavani (Carmine Recano), la seconda distrutta dalla morte della figlia Amelia, ma con un tenero rapporto con il marito Lucio (Luca Barbarossa). La madre delle due, che nella cornice narrativa Özpetek chiede di interpretare a Elena Sofia Ricci, è morta da tempo, cosicché Alberta e Gabriella hanno nella zia, Olga (Milena Vukotic), l'unico baluardo familiare della precedente generazione.
Anche le loro dipendenti hanno vite private complesse, e così piano piano lo spettatore si addentra in quello che Geppi Cucciari, nella cornice narrativa, definisce un "vaginodromo", mediocre battuta televisiva, forse improvvisata (?), ma che abbatte la tensione del film per riportare tutto nella dozzinalità. Quello che ne viene fuori, invece, è una sorellanza tra tutte le donne della storia, un'amicizia che va oltre la condivisione dello spazio di lavoro e diventa solidarietà, cura e aiuto pratico verso le altre in difficoltà.
Nina (Paola Minaccioni) è la caposarta, con un figlio adolescente depresso e il marito, Marco (Valerio Morigi), che minimizza la situazione; Paolina (Anna Ferzetti) è la modista, mamma sola del piccolo Simone; Eleonora (Lunetta Savino) è vedova e ha una relazione con il segretario dell'azienda, Ennio (Edoardo Purgatori), mentre sua nipote Beatrice (Aurora Giovinazzo) è un'attivista che durante una manifestazione viene inseguita dalla polizia e si rifugia nella sartoria.
Nicoletta (Milena Mancini) ha un marito violento, Bruno (Vinicio Marchionni), che la considera una sua proprietà e al proprio servizio; Carlotta (Nicole Grimaudo) è la tingitrice, ma di lei non sappiamo altro; Giuseppina (Sara Bosi) è la giovane apprendista, a cui tutte vogliono trovare un uomo; Fausta (Geppi Cucciari), infine, è la donna più libera e autodeterminata del gruppo, si è separata dal marito e consiglia a Nicoletta di fare lo stesso.
Nella sartoria lavora come cuoca anche Silvana (Mara Venier), un'ex ballerina del varietà che, una volta invecchiata, è stata lasciata dal fidanzato industriale. È la più anziana, conosce Alberta da tanti anni, sa prendere tutte per il verso giusto e fa da nonna acquisita al piccolo Simone.
La locandina della Turandot del 1926 |
Entrambe vanno lì con le costumiste, Franca Zinzi (Giselda Volodi) e Bianca Vega (Vanessa Scalera). Quest'ultima, che rimpiange Cristóbal Balenciaga, morto da poco (nel 1972), è la collaboratrice storica di un grande regista premio Oscar (Stefano Accorsi) e le sue richieste per il nuovo film, ambientato nel '700, per ovvi motivi, diventano automaticamente le priorità di Alberta in primis, che avendo accantonato la parte sentimentale della propria vita, si è dedicata completamente al lavoro.
Ed è così che il suo cinismo, che talvolta la porta a essere sgradevole con le dipendenti, le vale le reprimende della sorella ("il mondo intero è il tappeto su cui ti pulisci le scarpe"). Alberta, però, sotto la sua scorza ha grandi capacità di empatia e di solidarietà con tutte quelle donne che, di fatto, rappresentano il suo quotidiano e la sua famiglia acquisita. Come visto, infatti, molte di loro hanno ferite profonde, ma bisogna andare avanti, "dobbiamo vivere" urla disperata proprio Alberta, che sente il peso dell'intera azienda sulle proprie spalle, a Gabriella, che non riesce ad essere presente come ha fatto fino a cinque anni prima, quando la figlia è scomparsa.
Eppure nell'apoteosi del nazionalpopolare, un pranzo di fine lavorazione che unisce tutti, i fallimenti di ognuna di loro sembrano sparire per far posto al trionfo del costume più bello. Da fantastiche artigiane, un po' come i topini di Cenerentola, realizzano nottetempo il bozzetto di Bianca Vega, anche lei con le sue insicurezze e le sue fragilità: una donna da Oscar che non ha mai pensato di valere granché ("mi sento sempre inadeguata"). Il vestito che ne viene fuori (così come il rosso dominante nelle immagini promozionali del film) è profondamente almodovariano e fa pensare istintivamente al recente The Human Voice (2020).
La musica purtroppo a volte peggiora le cose: la colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, nel cercare il pathos a tutti i costi, spesso sconfina nel patetico e soprattutto in un caso risulta controproducente. È il momento in cui Cavani arriva in sartoria per proporre una collaborazione alle sorelle Canova: Alberta è scossa, i loro sguardi sono intensi e la musica romantica che fa da sottofondo trasforma quel momento di grande amore represso in qualcosa di molto vicino alla telenovela. Anche la canzone portante, Diamanti, composta ancora da Taviani e Travia e cantata da Giorgia, che torna a collaborare con Özpetek dopo Gocce memoria per La finestra di fronte (2003), rende tutto troppo televisivo e nazionalpopolare.
In tutte le scene c'è tanta attenzione per l'arredamento e il design: carte da parati optical, camicie colorate e magliette attillate anni '70, qua e là si vedono anche una lampada Reggiani e una sedia Tulip, icone dell'epoca, al pari delle caramelle Rossana, che hanno un ruolo persino all'interno della trama e della realizzazione dei costumi.
La mdp si muove molto, avvolge i personaggi, ruota sulla scena e partecipa alla narrazione. Özpetek regala momenti di ottimo cinema e molto profondi, soprattutto quando la scena si svuota e restano uno o due personaggi a interagire tra di loro. Così Alberta, di sera, prima di andare a dormire, accende la televisione e si strucca davanti a una toletta con uno specchio tripartito che ce la mostra con tutte le preoccupazioni e le cupezze sul volto, simbolicamente liberato da ciò che le nasconde. La scena è particolarmente almodovariana e sullo sfondo la tv manda in onda Mina durante il varietà Milleluci (1974) - certificato dall'acconciatura bionda e riccia della tigre di Cremona - che ci dà anche l'anno esatto in cui si svolge la storia narrata dal film.
Un altro dei momenti meglio riusciti del film è la sequenza delle scuse di Alberta alla sorella: Gabriella passeggia per le vie nei pressi della sartoria dopo il fortissimo scontro con Alberta e questa la raggiunge per abbracciarla e scusarsi per le terribili parole pronunciate poco prima. È qui che la location principale del film si rivela con chiarezza, mostrando il muro che recinta la sede dell'Istituto di Studi Romani sull'Aventino, con due grandi murales ben visibili, creati digitalmente. La palazzina storica in cui è collocata la sartoria al centro della pellicola è quella di Piazza dei Cavalieri di Malta, 1, ma l'ingresso del priorato, progettato da G.B. Piranesi (1765), lì di fianco, famoso soprattutto per il buco della serratura da cui si vede la cupola di San Pietro, non viene giustamente inquadrato, per evitare l'eccessiva riconoscibilità del luogo e un tocco turistico che avrebbe rovinato una delle sequenze migliori del film.
La grande coralità della storia trova i suoi punti più alti in un paio di momenti da musical, guidati dalle mattatrici Nina e Fausta, le più frontali, le più dirette. E immancabilmente anche a Nina spettano battute di bassa lega, quando gioca con le comparse, giovani attori dai corpi statuari ("è da mo che nun sarto... da un contadino a un altro").
I brani cantati dalle sarte, coinvolgendo anche un paio di fattorini intimiditi dalla situazione, sono Mi sei scoppiato dentro al cuore (Mina, 1966) e Gli occhi dell'amore (Patty Pravo, 1968), ballate struggenti e malinconiche che si adattano perfettamente alla trama del film, ma nel contesto giocoso e di gruppo non scadono nel banale. Molto bella anche la canzone inedita di Mina, che forse meritava una centralità maggiore (L'amore vero), e che caratterizza la scena del pranzo al lago in cui Alberta vede la moglie di Leonardo e scopre cosa è successo tanti anni prima.
La passione, la commozione, il sentimentalismo di Diamanti colpiscono durante la visione, ma via via ci si rende conto che i tanti temi affrontati rimangono spesso in superficie: i fallimenti delle donne protagoniste, l'attivismo di Beatrice, la violenza di Bruno (che ripropone l'identico personaggio di Valerio Mastandrea in C'è ancora domani di Paola Cortellesi, ormai sistematicamente cavalcato dal cinema italiano), l'incapacità di Marco, l'arroganza del regista, il buonismo di Cavani. Non mancano le tipicità comportamentali di quegli anni, forse ancora più formali e borghesi di oggi, con Nicoletta che, di fronte alla tragica situazione che vive a casa, si preoccupa del vicinato ("e che je dico agli altri?"); Nina che propone una sorta di santona/maga per far superare al figlio i problemi psicologici, ecc.
Annullando quasi completamente i personaggi maschili, peraltro, non sempre quelli femminili emergono di conseguenza. Brillano quindi Luisa Ranieri e Jasmine Trinca, soprattutto grazie alle loro interpretazioni, ma tutte le altre, pur non demeritando, non reggono il paragone con loro e, complice la sceneggiatura, risultano piuttosto delle caricature di ciò che vogliono rappresentare.
Diamanti è un film piacevole, una fiaba che idealizza complicità tra donne e sorellanza, lontana dall'essere una pellicola impegnata o di denuncia, poiché tutti gli aspetti che potrebbero garantire questo risultato restano posticci, messi lì un po' per tendenza che per reale convinzione. In fondo, Özpetek, pur girando bene, sembra non riuscire a gestire il tanto materiale a disposizione e questo sinceramente è un gran peccato, perché la sensazione è di essere di fronte a un potenziale film d'autore che non va oltre lo sceneggiato ben confezionato e l'ottima recitazione.
Ed è così che il suo cinismo, che talvolta la porta a essere sgradevole con le dipendenti, le vale le reprimende della sorella ("il mondo intero è il tappeto su cui ti pulisci le scarpe"). Alberta, però, sotto la sua scorza ha grandi capacità di empatia e di solidarietà con tutte quelle donne che, di fatto, rappresentano il suo quotidiano e la sua famiglia acquisita. Come visto, infatti, molte di loro hanno ferite profonde, ma bisogna andare avanti, "dobbiamo vivere" urla disperata proprio Alberta, che sente il peso dell'intera azienda sulle proprie spalle, a Gabriella, che non riesce ad essere presente come ha fatto fino a cinque anni prima, quando la figlia è scomparsa.
Eppure nell'apoteosi del nazionalpopolare, un pranzo di fine lavorazione che unisce tutti, i fallimenti di ognuna di loro sembrano sparire per far posto al trionfo del costume più bello. Da fantastiche artigiane, un po' come i topini di Cenerentola, realizzano nottetempo il bozzetto di Bianca Vega, anche lei con le sue insicurezze e le sue fragilità: una donna da Oscar che non ha mai pensato di valere granché ("mi sento sempre inadeguata"). Il vestito che ne viene fuori (così come il rosso dominante nelle immagini promozionali del film) è profondamente almodovariano e fa pensare istintivamente al recente The Human Voice (2020).
La musica purtroppo a volte peggiora le cose: la colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, nel cercare il pathos a tutti i costi, spesso sconfina nel patetico e soprattutto in un caso risulta controproducente. È il momento in cui Cavani arriva in sartoria per proporre una collaborazione alle sorelle Canova: Alberta è scossa, i loro sguardi sono intensi e la musica romantica che fa da sottofondo trasforma quel momento di grande amore represso in qualcosa di molto vicino alla telenovela. Anche la canzone portante, Diamanti, composta ancora da Taviani e Travia e cantata da Giorgia, che torna a collaborare con Özpetek dopo Gocce memoria per La finestra di fronte (2003), rende tutto troppo televisivo e nazionalpopolare.
In tutte le scene c'è tanta attenzione per l'arredamento e il design: carte da parati optical, camicie colorate e magliette attillate anni '70, qua e là si vedono anche una lampada Reggiani e una sedia Tulip, icone dell'epoca, al pari delle caramelle Rossana, che hanno un ruolo persino all'interno della trama e della realizzazione dei costumi.
La mdp si muove molto, avvolge i personaggi, ruota sulla scena e partecipa alla narrazione. Özpetek regala momenti di ottimo cinema e molto profondi, soprattutto quando la scena si svuota e restano uno o due personaggi a interagire tra di loro. Così Alberta, di sera, prima di andare a dormire, accende la televisione e si strucca davanti a una toletta con uno specchio tripartito che ce la mostra con tutte le preoccupazioni e le cupezze sul volto, simbolicamente liberato da ciò che le nasconde. La scena è particolarmente almodovariana e sullo sfondo la tv manda in onda Mina durante il varietà Milleluci (1974) - certificato dall'acconciatura bionda e riccia della tigre di Cremona - che ci dà anche l'anno esatto in cui si svolge la storia narrata dal film.
I murales creati digitalmente all'Aventino |
La grande coralità della storia trova i suoi punti più alti in un paio di momenti da musical, guidati dalle mattatrici Nina e Fausta, le più frontali, le più dirette. E immancabilmente anche a Nina spettano battute di bassa lega, quando gioca con le comparse, giovani attori dai corpi statuari ("è da mo che nun sarto... da un contadino a un altro").
I brani cantati dalle sarte, coinvolgendo anche un paio di fattorini intimiditi dalla situazione, sono Mi sei scoppiato dentro al cuore (Mina, 1966) e Gli occhi dell'amore (Patty Pravo, 1968), ballate struggenti e malinconiche che si adattano perfettamente alla trama del film, ma nel contesto giocoso e di gruppo non scadono nel banale. Molto bella anche la canzone inedita di Mina, che forse meritava una centralità maggiore (L'amore vero), e che caratterizza la scena del pranzo al lago in cui Alberta vede la moglie di Leonardo e scopre cosa è successo tanti anni prima.
La passione, la commozione, il sentimentalismo di Diamanti colpiscono durante la visione, ma via via ci si rende conto che i tanti temi affrontati rimangono spesso in superficie: i fallimenti delle donne protagoniste, l'attivismo di Beatrice, la violenza di Bruno (che ripropone l'identico personaggio di Valerio Mastandrea in C'è ancora domani di Paola Cortellesi, ormai sistematicamente cavalcato dal cinema italiano), l'incapacità di Marco, l'arroganza del regista, il buonismo di Cavani. Non mancano le tipicità comportamentali di quegli anni, forse ancora più formali e borghesi di oggi, con Nicoletta che, di fronte alla tragica situazione che vive a casa, si preoccupa del vicinato ("e che je dico agli altri?"); Nina che propone una sorta di santona/maga per far superare al figlio i problemi psicologici, ecc.
Annullando quasi completamente i personaggi maschili, peraltro, non sempre quelli femminili emergono di conseguenza. Brillano quindi Luisa Ranieri e Jasmine Trinca, soprattutto grazie alle loro interpretazioni, ma tutte le altre, pur non demeritando, non reggono il paragone con loro e, complice la sceneggiatura, risultano piuttosto delle caricature di ciò che vogliono rappresentare.
Diamanti è un film piacevole, una fiaba che idealizza complicità tra donne e sorellanza, lontana dall'essere una pellicola impegnata o di denuncia, poiché tutti gli aspetti che potrebbero garantire questo risultato restano posticci, messi lì un po' per tendenza che per reale convinzione. In fondo, Özpetek, pur girando bene, sembra non riuscire a gestire il tanto materiale a disposizione e questo sinceramente è un gran peccato, perché la sensazione è di essere di fronte a un potenziale film d'autore che non va oltre lo sceneggiato ben confezionato e l'ottima recitazione.
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